lunedì 27 luglio 2015

La spesa pubblica in Italia e nell'eurozona

Si sentono fare tanti discorsi sulla spesa pubblica italiana, soprattutto da chi si lamenta di quanto è alta e di come andrebbe tagliata. Tuttavia, da questi dibattiti, difficilmente ci si fa una chiara della situazione. Mosso da questa curiosità sono andato a controllare, e ho trovato i seguenti dati sul sito di Bankitalia.

Fonte dati: base statistca Banca d'Italia (qui)
A scanso di possibili equivoci sulla completezza dei dati, il grafico qui sopra mostra la spesa pubblica totale, divisa in: spese correnti nette, interessi, e spese in conto capitale. Possiamo osservare che la spesa pubblica italiana è, in effetti, cresciuta dal 40,7% del 1980 al 51,1% del PIL nel 2014. Tuttavia, durante il periodo oggetto della nostra analisi, l'andamento risulta essere piuttosto altalenante. Fino ai primi anni 90 si ha un progressivo aumento dovuto, praticamente in egual misura, sia all'aumento del costo delle spese correnti nette che a quello degli interessi passivi. Chi volesse conoscere il motivo dell'impennata del costo degli interessi passivi sul bilancio dello stato può farsene un'idea leggendo questo vecchio post. Successivamente, e fino alla crisi, la spesa pubblica regredisce fino al 46,8% del 2007 (sei punti percentuali sopra il dato di partenza). Infine, riprende la sua corsa a partire dal 2008 per arrivare fino al 51,1% del 2014 (ben dieci punti percentuali abbondanti sopra il dato iniziale). Tuttavia, quest'ultimo incremento è imputabile, più che altro, alla caduta del PIL dovuto alla recessione (quasi nove punti percentuali) invece che all'incremento della spesa in sè.

Ma qual è la situazione negli altri paesi dell'eurozona? Di seguito vi propongo i dati relativi all'anno 2014.

Fonte dati: base statistica Banca d'Italia (qui)
L'Italia ha una spesa pubblica complessiva più elevata della media dell'eurozona di circa due punti percentuali (il 51,1% contro una media del 49%). Ci sono, strano ma vero, paesi molto più spendaccioni del nostro: Finlandia (58,7%), Francia (57,2%), Belgio (54,4%) e Austria (52,3%).

Se poi osserviamo il dato della spesa corrente al netto degli interessi, quella che comprende tutti i costi che normalmente si sente dire che dovremmo tagliare (che vanno dalle pensioni alla sanità, passando per la scuola pubblica, e gli stipendi della pubblica amministrazione) vediamo che la percentuale dell'Italia è nella media dell'eurozona (42,8% contro una media del 42,7%). Consideriamo anche il fatto che, con una crisi come quella attuale, che provoca una forte disoccupazione, alcune spese, come ad esempio quelle relative alle prestazioni di sostegno al reddito, aumentano.

Prima della crisi la situazione era la seguente.

Fonte dati: base statistica Banca d'Italia (qui)
Intanto, osserviamo il fatto che, nonostante quello che ci veniva ripetuto qualche anno fa, le politiche di austerità non sembrano essere state utili al contenimento della spesa pubblica. Il motivo per cui era ovvio che non sarebbe stato così, se vi interessa, lo trovate in uno dei primi post di questo blog (qui).

Comunque, nel 2007 l'Italia aveva una spesa pubblica totale più alta della media dell'eurozona di un punto e mezzo percentuale (46,8% contro una media di 45,3%) ma la nostra spesa corrente al netto degli interessi era al di sotto di un mezzo punto abbondante (37,5% contro una media del 38,1%).

La cosa più interessante però si nota meglio isolando il dato della spesa corrente, come nel grafico sottostante.

Fonte dati: base statistica Banca d'Italia (qui)
Come potete vedere, prima della crisi, tutti i paesi definiti PIGS (maiali), e chiamati così per la voracità del loro settore pubblico, avevano in realtà, tutti, una spesa corrente netta più bassa della media dell'eurozona. Oltre ai casi limite rappresentati da Spagna e Irlanda, è sorprendente notare che il "corrotto e inefficiente" stato greco spendeva meno di quello tedesco.

Da questa breve ma significativa analisi, credo di poter trarre la seguente conclusione. Di certo, i tanti sprechi presenti nelle varie amministrazioni pubbliche andrebbero eliminati il più possibile. Ma un conto è sostenere, a priori, che bisogna tagliare la spesa pubblica, quando, a giudicare dal livello degli altri paesi europei, non emerge una così rilevante, e urgente, necessità. E un altro è propendere per una maggiore efficienza e/o per una differente allocazione della spesa. Tanto per citare un esempio, sarebbe auspicabile aumentare i fondi destinati all'istruzione che, come abbiamo visto qui, non sono in linea con quelli della media europea.

Purtroppo però, molto spesso, accade che i discorsi sulla spesa pubblica prescindano dalla realtà dei fatti, e presentino forti connotazioni ideologiche. Un esempio, fra i tanti, è la discussione che vi propongo di seguito, che mi è capitato di fare su Twitter con Alessandro De Nicola (presidente dell'associazione Adam Smith Society e professore di diritto commerciale all'Università Bocconi di Milano) autore dell'articolo che segue.











lunedì 20 luglio 2015

La resa incondizionata di Tsipras

Potete scaricare da fonti ufficiali qui il testo dell'accordo che il primo ministro greco Tsipras ha accettato alla riunione dell'Eurogruppo di domenica 12 luglio.

Di fatto, per capire che non si tratta di un compromesso ma di una vera e propria capitolazione basta leggere le prime righe, in cui si asserisce che lo scopo della riunione è ricostruire la fiducia verso le autorità greche come prerequisito per un futuro intervento del Meccanismo di Stabilità Europeo (MES) e del Fondo Monetario Internazionale. A tale scopo, l'Eurogruppo accoglie gli impegni del governo greco a procedere con sollecitudine ad approvare una serie di riforme come prerequisito per futuri ulteriori accordi sul debito.
Da ciò se ne deduce che il dramma che sta vivendo il popolo greco non è prioritario per i governi degli altri paesi d'Europa. Quello che conta è che il primo ministro Tsipras si impegni a fare delle riforme a tempo di record.

E in cosa consistono queste riforme? Aumenti di tasse e diminuzione dei servizi. Entro il 15 luglio (tre giorni dopo):

  • aumento dell'iva
  • aumento dell'età pensionabile
  • salvaguardia dell'indipendenza dell'istituto di statistica nazionale
  • riprisitnare i limiti dei parametri del Patto di Stabilità (Maastricht) ed eseguire ulteriori tagli automatici in caso sforamento dai suddetti parametri

Entro il 22 luglio (dieci giorni dopo):

  • riforma del codice di procedura civile per velocizzare la giustizia e ridurne i costi
  • approvare la direttiva europea sul salvataggio delle banche (si tratta, in pratica, del bail-in di a cui vi ho già accennato qui).
Solo dopo l'approvazione di queste riforme da parte del parlamento greco, così come degli altri "suggerimenti" inclusi nell'accordo, e la verifica da parte delle istituzioni europee, l'Eurogruppo potrà (a sua discrezione) dare il via alla procedura di finanziamento tramite il MES. 



E a quel punto scatterà l'obbligo di approvare anche le seguenti ulteriori misure:

  • altri tagli alle pensioni
  • un'ambiziosa riforma di liberalizzazione del commercio 
  • una serie di privatizzazioni, tra cui è espressamente citata quella del gestore dell'energia elettrica
  • una rigorosa riforma del mercato del lavoro che elimini la contrattazione collettiva e faciliti i licenziamenti
  • nuovi tagli ai costi dell'amministrazione pubblica
Relativamente alle privatizzazioni, le attività pubbliche da dismettere verranno conferite ad un fondo privato indipendente. Tale istituzione sarà gestita dalle autorità greche, con la supervisione delle istituzioni europee.


L'Eurogruppo ci tiene a sottolineare che la lista sopra menzionata di riforme rappresenta il minimo affinché la Grecia possa accedere ai finanziamenti del MES e che, in ogni caso, tutto ciò non impegna le istituzioni europee. 


L'Eurogruppo è inoltre contrario riguardo alla possibilità di una ristrutturazione del debito greco.


Da ultimo, quasi a sottolineare la generosità dell'Europa, viene stabilito che la Commissione Europea lavorerà a stretto contatto con le autorità greche per trovare, nei prossimi 3-5 anni, 35 miliardi di fondi da utilizzare per gli investimenti. Un impegno piuttosto generico, se si considera il fatto che, per il momento, si fa fatica a metter insieme anche i capitali minimi per il piano Juncker sugli investimenti.

Quanto successo domenica, a distanza da una settimana dal referendum greco in cui i cittadini avevano risposto no (oxi) a nuovi sacrifici è l'ultima, inesorabile prova, del fatto che l'ingerenza delle istituzioni europee è ormai tale da palesare la formale sospensione della democrazia in Grecia. 

Non esiste euro senza austerità. E sarebbe troppo lungo riproporvi tutte le ragioni per cui queste misure saranno letali per la Grecia che, come potrete leggere dettagliatamente da questo articolo, una serie di riforme le ha già fatte (e non sono servite a favorire la crescita economica). 

In "Le conseguenze economiche della pace" Keynes si espresse in questo modo riferendosi al trattato di Versailles che pose fine alla prima guerra mondiale:

«Anche in queste ultime, angosciose settimane ho continuato a sperare che trovaste un modo qualunque per fare del trattato un documento giusto e realistico. Ma ora è troppo tardi, evidentemente. La battaglia è perduta»

Oggi, le stesse parole valgono per questo nuovo umiliante trattato subito dal popolo greco.  








lunedì 13 luglio 2015

Dal Corriere della Sera, Sergio Rizzo su: crescita, sprechi, corruzione e debito pubblico

Oggi voglio segnalarvi questo articolo apparso la settimana scorsa sul Corriere della Sera che si riferisce ad un documento del Centro Studi per l'Economia Reale del Prof. Mario Baldassarri, stimato economista ed ex parlamentare di Alleanza Nazionale e Popolo della Libertà.

Premetto che, non essendo ancora disponibile lo studio in questione, i miei commenti si baseranno esclusivamente su quanto scritto nell'articolo di Sergio Rizzo (divenuto popolare con il libro "La Casta"). Non me ne voglia quindi il Prof. Baldassarri, nell'eventualità che il giornalista in questione non sia stato esaustivo nelle sue spiegazioni, o se gli fosse capitato di incorrere in qualche lieve imprecisione.

Sergio Rizzo ci invita a immaginare: <<un paese dove il debito pubblico sia al 58,3% di un PIL superiore di qualcosa come 236 miliardi al nostro di oggi>>. Tutto questo sarebbe possibile, secondo il rapporto in questione, se si fosse fatta un'adeguata lotta agli sprechi tra il 2002 e il 2014, il cui risultato sarebbe stato una maggior crescita del PIL italiano stimata in 128-141 miliardi.

Da quanto riferito dall'articolo del Corriere, lo studio dell'economista Baldassarri <<parte dal presupposto che sprechi e corruzione siano direttamente proporzionali all'andamento della spesa pubblica corrente>>. E' noto il fatto che la stima di fenomeni quale la corruzione siano di difficile misurazione. Viene tuttavia da domandarsi, per quale motivo si dovrebbero misurare gli sprechi e le altre attività criminali solo nel settore pubblico, dato che queste sono cose che accadono tanto nel pubblico quanto nel privato?

Esiste poi un altro problema, ben più importante. Nei manuali di economia, il PIL è descritto come la composizione dalle seguenti grandezze:

Y = C + G + I + X - M

Y = PIL
C = consumi privati
G = consumi pubblici
I = investimenti
X = esportazioni
M = importazioni

Pertanto, che effetto avrebbe su di esso una generale diminuzione degli sprechi, e quindi dei consumi stessi? Così, a prima vista, direi che questo comporterebbe una riduzione del PIL, indipendentemente dal fatto che gli sprechi (ovvero i consumi) diminuiscano nel pubblico o nel privato, o peggio ancora, in entrambi i settori. Del resto, non è difficile immaginare che, un taglio da parte degli uffici pubblici alle spese per gli abbonamenti dei quotidiani (come il Corriere della Sera) comporterebbe si una minor spesa per lo stato (non sappiamo se per una riduzione degli sprechi o meno) ma di conseguenza anche un minor ricavo per RCS, e quindi un importo in meno da aggiungere al calcolo del PIL.

Identico discorso vale per la corruzione. Le tangenti, o mazzette, di cui beneficiano i corruttori vanno ad alimentare i consumi degli stessi. Non si è mai sentito (non escludo che ci sia, ma non è consueto) di un politico corrotto che conduce una vita monacale, pur disponendo di ingenti somme frutto della sua attività criminale. Nonostante il giudizio morale, o perfino giuridico, il dato di fatto contabile è che le spese di qualcuno corrispondono sempre al reddito di qualcun altro.

Il giornalista Rizzo, pone l'enfasi sul fatto che, se si fosse dichiarato guerra alla piaga degli sprechi e della corruzione, lo stato avrebbe potuto tagliare la spesa pubblica corrente di 70 miliardi destinandoli quasi totalmente alla riduzione delle tasse. Certo che, con più denaro nelle tasche proveniente dalla riduzione delle tasse, si presume che i consumi privati sarebbero aumentati. La stessa cosa invece non si può dire di quelli pubblici che, per effetto dei tagli alla spesa corrente, evidentemente, sarebbero diminuiti. Inoltre, partendo dall'idea molto in voga nell'area politica a cui appartiene il Prof. Baldassari (candidato nel 2013 con la lista Monti per L'Italia), che lo stato è più sprecone dei cittadini privati, questa compensazione avrebbe potuto addirittura tramutarsi in una crescita negativa del PIL.

In effetti, però, ci sarebbe un motivo per cui la lotta alla corruzione e agli sprechi potrebbe portare un beneficio alla crescita del PIL, anche se non è semplicemente legato alla riduzione delle tasse. Dalla Teoria Generale di Keynes, libro III sulla propensione al consumo, capitolo 8.III,  apprendiamo che la propensione marginale al consumo è più alta nei redditi bassi. Ciò significa, banalmente, che chi guadagna meno consuma una porzione maggiore del suo reddito rispetto a chi può godere di maggiori entrate.

Quindi, relativamente agli sprechi, se diamo per assunto il fatto piuttosto noto che, solitamente, le spese voluttuarie di un benestante sono maggiori di quelle di una persona umile, una ridistribuzione della ricchezza avrebbe come effetto un aumento dei consumi e di conseguenza del PIL. Per quanto riguarda la corruzione, partendo dall'ipotesi suffragata dalla saggezza popolare (ma tutta da dimostrare), per cui l'occasione fa l'uomo ladro, da cui ne consegue la considerazione che i ricchi sono più corrotti dei poveri, l'attenuazione di questo fenomeno criminale comporterebbe gli stessi effetti ridistributivi sopra illustrati.

Rizzo scrive, con un po' di rammarico: <<se fosse andata davvero così [...] l'Italia avrebbe potuto rispettare senza alcuna difficoltà il famigerato fiscal compact>>. A questo punto viene da chiedersi: quale sarebbe l'effetto della crescita sul debito? Se consideriamo il debito pubblico, ovviamente, un aumento del PIL (trascinato dai consumi) causerebbe, molto probabilmente, una diminuzione del debito in percentuale al PIL. Cosa peraltro accaduta durante il periodo che ha preceduto la crisi attuale (qui).

Tuttavia, nonostante nei giornali e in TV si parli solo di quello, il debito non è solo quello pubblico ma è anche quello privato. E cosa succederebbe al debito privato, se improvvisamente gli italiani avessero più denaro da utilizzare nei consumi? Sempre quello che è successo per tutti gli anni precedenti la crisi, aumenterebbe (qui).

Infatti, chi ha programmato e messo in atto l'austerità a partire dal 2011, non l'ha fatto per rilanciare la crescita del PIL attraverso i consumi degli italiani, ma ha agito nel tentativo (perfettamente riuscito) di colpirne i redditi attraverso la disoccupazione, per far diminuire le importazioni che in quel momento storico superavano le esportazioni causando l'aumento del debito (privato) con l'estero (qui).

Pertanto, come si può leggere dagli studi di tanti rinomati economisti (ad esempio qui, qui e qui), in un sistema come il nostro (l'eurozona) la crescita del PIL può essere ottenuta solo rispettando il vincolo esterno, ovvero il pareggio della bilancia delle partite correnti, attraverso l'aumento delle esportazioni, e quindi mediante la svalutazione dell'unico fattore produttivo flessibile rimasto, il lavoro. In questo sistema, una politica ridistributiva che favorisse l'aumento dei consumi sarebbe suicida.

Come ricorda Sergio Rizzo, che potrebbe anche avere ragione: <<l'economia è una cosa troppo seria per lasciarla fare agli economisti>>. Forse però è ancora troppo presto per consegnarla nelle mani dei giornalisti.



lunedì 6 luglio 2015

La Grecia e la fila al bancomat

Da almeno una settimana il servizio di apertura di ogni telegiornale mostra le immagini dei greci che fanno la fila in banca per ritirare la pensione, o prelevare al bancomat, fino a un massimo di 60 euro giornalieri. Queste immagini sono sempre accostate, precedute, o seguite, dagli ipocriti inviti al dialogo di qualche esponente della Troika, peraltro responsabile di aver chiuso i rubinetti alle banche greche dopo la rottura della trattativa in corso con il gorveno ellenico. Questi poi, non si fanno nemmeno alcun problema a intervenire spudoratamente nella politica interna di un paese terzo, suggerendo di votare si al referendum indetto da Atene, e prospettando la possibilità che questo aprirebbe la strada ad un accordo più favorevole con la Grecia. Infine, il giornalista di turno riporta qualche dichiarazione di Tsipras (il primo ministro greco) che invita i suoi elettori a confermare la scelta contro l'austerità, che peraltro hanno già preso votandolo alle ultime elezioni facendogli fare, più o meno velatamente, la figura responsabile della situazione e della presunta catastrofe che colpirebbe il suo popolo se si azzardasse a sfidare la Troika uscendo dall'euro. La campagna mediatica in corso è talmente maligna, e di cattivo gusto, che non posso esimermi dal cercare di ripristinare, pur con i miei limitati mezzi, un po’ di lealtà d’informazione.

In Grecia è si in corso una fuga di capitali dalle banche, ma dal 2010, non da qualche giorno. Pensavate davvero che le persone che potevano vantare almeno una discreta sommetta da parte avrebbero aspettato l’estate 2015 per mettere al sicuro i propri risparmi dalla svalutazione? No. E infatti, come potete osservare dal grafico qui sotto, sono cinque anni che dalla Grecia i capitali fuggono all’estero.

Nel grafico qui sopra i dati mensili relativi alla consistenza dei depositi bancari in Grecia in milioni di euro dal 2001 (anno di entrata della Grecia nell'euro) fino al 2015. Osservate come il bank run vero e proprio, al cui confronto quello di questi giorni è poca cosa, inizia nel 2010, poco dopo il primo "salvataggio" da parte della Troika.
Fonte dati; Banca di Grecia (qui)
Le banche greche sono state finanziate in eccesso per anni da quelle francesi e tedesche che, evidentemente, consideravano un buon affare investire in Grecia. Questo fino alla crisi, quando le banche del centro e del nord Europa hanno improvvisamente smesso di finanziare quelle elleniche. A quel punto, la paura dell’uscita dall’euro, e della conseguente svalutazione della dracma, hanno provocato quello che gli economisti chiamano bank run (corsa agli sportelli). Quello a cui assistiamo oggi, grazie al clamore dei media, è solo l’ultima fase di un processo iniziato cinque anni fa nel loro più totale silenzio.

Questa storia finirà in due modi:
  1. se la Grecia non dovesse trovare un accordo con la Troika e uscisse dall’eurozona, molto semplicemente, stamperebbe la propria moneta, che varrebbe sicuramente meno dell’euro, ma che sarebbe comunque disponibile in banca senza limiti ai prelevamenti, come in ogni paese del mondo;
  2. se invece la Grecia dovesse trovare un accordo con la Troika, riprenderebbe il programma di finanziamenti tramite il fondo salva stati europeo (il MES), magari spremendo ancora una volta i contribuenti europei (e/o quelli greci), e le file al bancomat, scomparirebbero anche in questo caso.
Quindi, questi disagi sono solo contingenti, e soprattutto, ne sono responsabili coloro i quali, dopo aver fatto gli interessi delle banche private che hanno investito in Grecia, e che sono rientrate dai loro crediti tramite i soldi dei contribuenti, ora stringono il cappio intorno al popolo greco già martoriato da anni di crisi e disoccupazione.