Oggi voglio segnalarvi
questo articolo apparso la settimana scorsa sul Corriere della Sera che si riferisce ad un documento del Centro Studi per l'Economia Reale del
Prof. Mario Baldassarri, stimato economista ed ex parlamentare di Alleanza Nazionale e Popolo della Libertà.
Premetto che, non essendo ancora disponibile lo studio in questione, i miei commenti si baseranno esclusivamente su quanto scritto nell'articolo di
Sergio Rizzo (divenuto popolare con il libro "La Casta"). Non me ne voglia quindi il Prof. Baldassarri, nell'eventualità che il giornalista in questione non sia stato esaustivo nelle sue spiegazioni, o se gli fosse capitato di incorrere in qualche lieve imprecisione.
Sergio Rizzo ci invita a immaginare:
<<un paese dove il debito pubblico sia al 58,3% di un PIL superiore di qualcosa come 236 miliardi al nostro di oggi>>. Tutto questo sarebbe possibile, secondo il rapporto in questione, se si fosse fatta un'adeguata lotta agli sprechi tra il 2002 e il 2014, il cui risultato sarebbe stato una maggior crescita del PIL italiano stimata in 128-141 miliardi.
Da quanto riferito dall'articolo del Corriere, lo studio dell'economista Baldassarri
<<parte dal presupposto che sprechi e corruzione siano direttamente proporzionali all'andamento della spesa pubblica corrente>>. E' noto il fatto che la stima di fenomeni quale la corruzione siano di difficile misurazione. Viene tuttavia da domandarsi, per quale motivo si dovrebbero misurare gli sprechi e le altre attività criminali solo nel settore pubblico, dato che queste sono cose che accadono tanto nel pubblico quanto nel privato?
Esiste poi un altro problema, ben più importante. Nei manuali di economia, il PIL è descritto come la composizione dalle seguenti grandezze:
Y = C + G + I + X - M
Y = PIL
C = consumi privati
G = consumi pubblici
I = investimenti
X = esportazioni
M = importazioni
Pertanto, che effetto avrebbe su di esso una generale diminuzione degli sprechi, e quindi dei consumi stessi? Così, a prima vista, direi che questo comporterebbe una riduzione del PIL, indipendentemente dal fatto che gli sprechi (ovvero i consumi) diminuiscano nel pubblico o nel privato, o peggio ancora, in entrambi i settori. Del resto, non è difficile immaginare che, un taglio da parte degli uffici pubblici alle spese per gli abbonamenti dei quotidiani (come il Corriere della Sera) comporterebbe si una minor spesa per lo stato (non sappiamo se per una riduzione degli sprechi o meno) ma di conseguenza anche un minor ricavo per RCS, e quindi un importo in meno da aggiungere al calcolo del PIL.
Identico discorso vale per la corruzione. Le tangenti, o mazzette, di cui beneficiano i corruttori vanno ad alimentare i consumi degli stessi. Non si è mai sentito (non escludo che ci sia, ma non è consueto) di un politico corrotto che conduce una vita monacale, pur disponendo di ingenti somme frutto della sua attività criminale. Nonostante il giudizio morale, o perfino giuridico, il dato di fatto contabile è che le spese di qualcuno corrispondono sempre al reddito di qualcun altro.
Il giornalista Rizzo, pone l'enfasi sul fatto che, se si fosse dichiarato guerra alla piaga degli sprechi e della corruzione, lo stato avrebbe potuto tagliare la spesa pubblica corrente di 70 miliardi destinandoli quasi totalmente alla riduzione delle tasse. Certo che, con più denaro nelle tasche proveniente dalla riduzione delle tasse, si presume che i consumi privati sarebbero aumentati. La stessa cosa invece non si può dire di quelli pubblici che, per effetto dei tagli alla spesa corrente, evidentemente, sarebbero diminuiti. Inoltre, partendo dall'idea molto in voga nell'area politica a cui appartiene il Prof. Baldassari (candidato nel 2013 con la lista Monti per L'Italia), che lo stato è più sprecone dei cittadini privati, questa compensazione avrebbe potuto addirittura tramutarsi in una crescita negativa del PIL.
In effetti, però, ci sarebbe un motivo per cui la lotta alla corruzione e agli sprechi potrebbe portare un beneficio alla crescita del PIL, anche se non è semplicemente legato alla riduzione delle tasse. Dalla
Teoria Generale di Keynes, libro III sulla propensione al consumo, capitolo 8.III, apprendiamo che la propensione marginale al consumo è più alta nei redditi bassi. Ciò significa, banalmente, che chi guadagna meno consuma una porzione maggiore del suo reddito rispetto a chi può godere di maggiori entrate.
Quindi, relativamente agli sprechi, se diamo per assunto il fatto piuttosto noto che, solitamente, le spese voluttuarie di un benestante sono maggiori di quelle di una persona umile, una ridistribuzione della ricchezza avrebbe come effetto un aumento dei consumi e di conseguenza del PIL. Per quanto riguarda la corruzione, partendo dall'ipotesi suffragata dalla saggezza popolare (ma tutta da dimostrare), per cui l'occasione fa l'uomo ladro, da cui ne consegue la considerazione che i ricchi sono più corrotti dei poveri, l'attenuazione di questo fenomeno criminale comporterebbe gli stessi effetti ridistributivi sopra illustrati.
Rizzo scrive, con un po' di rammarico:
<<se fosse andata davvero così [...] l'Italia avrebbe potuto rispettare senza alcuna difficoltà il famigerato fiscal compact>>. A questo punto viene da chiedersi: quale sarebbe l'effetto della crescita sul debito? Se consideriamo il debito pubblico, ovviamente, un aumento del PIL (trascinato dai consumi) causerebbe, molto probabilmente, una diminuzione del debito in percentuale al PIL. Cosa peraltro accaduta durante il periodo che ha preceduto la crisi attuale (
qui).
Tuttavia, nonostante nei giornali e in TV si parli solo di quello, il debito non è solo quello pubblico ma è anche quello privato. E cosa succederebbe al debito privato, se improvvisamente gli italiani avessero più denaro da utilizzare nei consumi? Sempre quello che è successo per tutti gli anni precedenti la crisi, aumenterebbe (
qui).
Infatti, chi ha programmato e messo in atto l'austerità a partire dal 2011, non l'ha fatto per rilanciare la crescita del PIL attraverso i consumi degli italiani, ma ha agito nel tentativo (perfettamente riuscito) di colpirne i redditi attraverso la disoccupazione, per far diminuire le importazioni che in quel momento storico superavano le esportazioni causando l'aumento del debito (privato) con l'estero (
qui).
Pertanto, come si può leggere dagli studi di tanti rinomati economisti (ad esempio
qui,
qui e
qui), in un sistema come il nostro (l'eurozona) la crescita del PIL può essere ottenuta solo rispettando il vincolo esterno, ovvero il pareggio della bilancia delle partite correnti, attraverso l'aumento delle esportazioni, e quindi mediante la svalutazione dell'unico fattore produttivo flessibile rimasto, il lavoro. In questo sistema, una politica ridistributiva che favorisse l'aumento dei consumi sarebbe suicida.
Come ricorda Sergio Rizzo, che potrebbe anche avere ragione:
<<l'economia è una cosa troppo seria per lasciarla fare agli economisti>>. Forse però è ancora troppo presto per consegnarla nelle mani dei giornalisti.