lunedì 30 giugno 2025

Come un debito privato diventa un guaio pubblico

"La crisi dell'eurozona non è stata, in fondo, una crisi di debito pubblico. La causa principale sono stati gli ingenti flussi di capitali intra-eurozona emersi prima della crisi"

Francesco Giavazzi, Richard Baldwin - The Eurozone crisis: A consensus view of the causes and few possible solutions (qui)

"il rischio per la stabilità non proveniva dall'eccesso del debito pubblico, bensì dall'eccesso del debito privato reso possibile da una espansione insostenibile del credito bancario"

Paul De Grauwe - Economia dell'unione monetaria (dodicesima edizione, cap.10 par.3.5)


I paesi che falliscono hanno quasi tutti un parametro economico in comune, che non è l'alto debito pubblico bensì un debito estero netto (vedi articolo precedente, qui) il quale è, in genere, un problema del settore privato. Oggi vedremo come esso si trasformi un guaio pubblico.

In estrema sintesi mostrerò un esempio pratico del ciclo di Frenkel, dall'economista Roberto Frenkel e dal suo articolo pubblicato nel 2009, insieme al suo coautore Martin Rapetti, sul Cambridge Journal of Economics. Se lo troverete interessante potrete leggere una spiegazione più dettagliata di questo fenomeno su "Il tramonto dell'euro" di Alberto Bagnai (testo caldamente raccomandato).

Quando un governo con una moneta debole fissa un cambio con una più forte acquista credibilità. Da quel momento gli investitori esteri iniziano a far affluire verso il paese soggetto all'aggancio valutario un ingente ammontare di capitali che provocano un deciso aumento del debito estero (sono quelli che Draghi chiamò gigantic transfers, qui). Questo perché sono sollevati dal rischio di cambio e attirati da tassi d'interesse nominali più bassi (grazie appunto alla credibilità) ma comunque più alti di quelli che riceverebbero a casa loro, perché nelle economie meno avanzate, direbbero gli esperti, l'utilità marginale del capitale è più alta. In parole povere gli investimenti rendono di più. Vediamo la conferma di ciò nel grafico qui sotto che mostra il peggioramento della posizione passiva verso l'estero, prima della crisi del 2008, dei cosiddetti PIIGS, cioè dei paesi più deboli che entrarono a far parte nell'area euro.


Salvo rare eccezioni (ad esempio il Portogallo), nella prima fase, l'aggancio valutario fa diminuire il rapporto debito pubblico PIL perché i titoli pubblici beneficiano di tassi d'interesse più bassi e di una certa crescita dei redditi, cioè del PIL, trainata dal debito. Nel settore privato, dove i capitali affluiscono in abbondanza, il debito esplode. Nel magico mondo degli economisti mainstream questi soldi dovrebbero allocarsi in maniera efficiente verso i migliori investimenti offerti dal mercato, che sono quelli che hanno più probabilità di successo. Nella realtà, come insegnava Keynes, vanno semplicemente dove rendono di più in quel momento; spesso a sostegno della spesa corrente. Chi coglie l'occasione di farsi il mutuo per la casa, chi si compra la macchina nuova, chi cambia gli elettrodomestici...Le aziende investono, cioè si indebitano, per stare dietro alla domanda di beni che cresce, anche quella a debito. Come si vede dal grafico qui sotto, in questa fase, il debito pubblico cala e quello privato (estero) cresce.



Ovviamente, presto o tardi, a causa di un evento interno o esterno al paese, il mercato inizia ad allarmarsi osservando la bolla che si gonfia e a preoccuparsi della sua imminente esplosione. Capita quindi che i tassi d'interesse richiesti dai creditori esteri aumentino, che avvenga un improvviso blocco dei finanziamenti (sudden stop) e infine il ritiro dei capitali investiti (reversal). Come evidenzia il grafico qui sotto, il debito privato diminuisce per l'effetto combinato del blocco e ritiro degli investimenti, dei rimborsi e dei fallimenti.
 

La bolla è scoppiata. Il governo può fronteggiare la crisi salvando qualche banca, o delle importanti società dal fallimento, e in generale sostenendo la domanda interna con politiche anticicliche. Tuttavia la fuga dei capitali esteri coinvolge anche i titoli pubblici, i cui tassi d'interesse aumentano vertiginosamente provocando l'innalzamento del debito pubblico (vedi grafico sopra) ma, cosa di gran lunga più importante, incomincia una corsa sempre più disperata alla valuta estera (scarsa) per pagare i debiti e finanziare le importazioni. 

Se la dinamica complessiva dei flussi finanziari del paese è negativa, cioè escono più capitali di quanti ne entrano, e finanziarie il passivo a debito è sempre più costoso a causa dei tassi d'interesse crescenti (ciò perché gli investitori esteri si fidano sempre meno e vogliono un premio sempre maggiore per il rischio), il governo, prima o poi, è costretto intervenire. 

La prima cosa che può fare è abbandonare il cambio fisso, lasciando svalutare la propria moneta per rendere più competitivi i beni esportati. Questo dovrebbe ripristinare i flussi in entrata di capitali esteri persi a causa della crisi che, a loro volta, servono a finanziare le importazioni. Ma se non dovesse bastare, il governo può scegliere di fallire cioè di non rimborsare una certa quantità di titoli di stato, o di farlo solo parzialmente. Così comprometterà, temporaneamente, la fiducia degli investitori ma, almeno per la parte relativa ai titoli pubblici, libererà l'economia da una parte del fardello causato dagli interessi passivi che vanno a remunerare i creditori esteri uscendo dal paese. Lo scopo è, ancora una volta, quello di migliorare la dinamica dei flussi finanziari diminuendo quelli della valuta estera in uscita, rallentando, o bloccando, una svalutazione monetaria eccessiva per quegli operatori privati indebitati tramite contratti che prevedono il rimborso dei prestiti, e il pagamento degli interessi in valuta straniera. Chi vuole approfondire questo meccanismo troverà soddisfazione nella seguente lettura: Sovereign Risk, Currency Risk, and Corporate Balance Sheets di Wenxin Du e Jesse Schreger (qui).

Nella zona euro, dove per svalutare occorrerebbe prima emettere una nuova moneta, la crisi di liquidità è stata risolta dalla Banca Centrale Europea che ha concesso alle banche centrali nazionali i fondi necessari a comprare il proprio debito pubblico sul mercato secondario (su quello primario la BCE non può intervenire). Diventando esse, di fatto, acquirenti di ultima istanza dei titoli pubblici hanno indotto la diminuzione dei tassi d'interesse (e degli spread). Grecia a parte, nessun altro paese in difficoltà è fallito. Al contrario dei sistemi dove la banca centrale del paese a moneta debole è costretta ad accumulare moneta estera (valuta pregiata) per mantenere la promessa del cambio fisso, nel nostro le banche centrali non hanno bisogno di avere riserve valutarie in euro per finanziare le proprie operazioni. Il meccanismo denominato Target2 prevede una sorta di camera di compensazione di tutte le transazioni fra i paesi dell'area euro, in cui la BCE matura posizioni a debito, o a credito, verso ogni singola banca centrale nazionale, senza che questi saldi siano soggetti a regolamento periodico. Rimangono lì. I debitori non li devono pagare e i creditori non li ricevono.

Putroppo però, fallimento o meno, quando la svalutazione non è sufficiente a rimettere in pari il flusso monetario, da e verso il resto del mondo (o non è più praticabile) queste situazioni sono accompagnate da aggiustamenti macroeconomici molto dolorosi che causano disoccupazione e impoverimento, soprattutto alle fasce più deboli della popolazione. Il tutto è reso politicamente accettabile da una retorica ipocrita, e paternalista, che individua l'origine del problema negli sprechi del settore pubblico (quando invece sarebbe da cercare nella menzogna del cambio fisso insostenibile, o nella moneta unica) con cui il governo impone i "sacrifici necessari" come i tagli di spesa e gli aumenti delle tasse alle solite categorie di contribuenti ignari delle vere ragioni del disastro.

In conclusione di queste due puntate conviene fare un breve riepilogo di quello che abbiamo visto. Come prima cosa, non è vero che un alto debito pubblico in sé aumenti la probabilità di fallimento. Di solito è la forte dipendenza di un'economia dai capitali esteri a provocare il default. Infine, abbiamo imparato che i semi da cui germogliano più facilmente le crisi finanziarie, e l'insolvenza, sono gli accordi di cambio fisso e le unioni monetarie come l'euro.


lunedì 23 giugno 2025

Avere un alto debito pubblico non significa automaticamente rischiare di più il fallimento


 "Debt-output ratios, are of little value per se for assessing the probability of default"

Fonte : "Rules of Thumb" for Sovereing Debt Crises - Paolo Manasse e Nouriel Roubini (2005) (qui)

Il fatto che il rischio di fallimento di un paese aumenti con il crescere del debito pubblico, cioè del rapporto debito pubblico PIL, è un'idea molto in voga nell'informazione di massa ma che, alla prova dei fatti, si dimostra inaffidabile.

Per dimostrarlo, prendiamo l'elenco degli episodi di fallimento a partire dal 1999 pubblicato da Standard & Poor's: Default, Transition, and Recovery 2024 (qui). Io ho usato l'edizione 2023 che però non è più on line. A fianco di ogni singolo default aggiungiamo una colonna con il rapporto debito pubblico PIL relativo all'ultimo dato annuale disponibile prima dell'evento. I valori sono quelli scaricabili dal WEO (qui). Il risultato è quello della tabella sottostante, dove troviamo paesi con un debito pubblico molto elevato, sopra il 100% del PIL, ma anche altri che stanno nell'intervallo tra il 60% e il 99% e altri ancora che rientrano addirittura nella soglia del 60% (quella prevista dal trattato Maastricht). 

Se fosse vero quello che ci raccontano i media, e anche alcuni economisti, cioè che la probabilità di default incrementa all'aumentare del parametro debito PIL, dovremmo riscontrare un numero maggiore di episodi di fallimento tra i paesi con un elevato valore di questo rapporto. Questa tesi non è suffragata dai dati, infatti il grafico sottostante non indica affatto questa tendenza. Il 31% del nostro campione ha un rapporto debito PIL inferiore al 60%, il 40% è compreso tra il 60 e il 99% e solo il 29% ha un valore maggiore del 100%.

Risulta pertanto confermata la citazione riportata al principio di questo post, tratta da un noto articolo scientifico in materia di fallimenti: "I rapporti debito prodotto hanno di per sé poco valore nel calcolo della stima della probabilità di fallimento".

Ora proviamo ad aggiungere al nostro campione un'altra colonna, con il valore del debito/credito estero netto in rapporto al PIL. Mi riferisco, ovviamente, alla posizione netta con l'estero (PNE) che in inglese viene chiamata Net International Investment Position (NIIP). La fonte è, come di consueto, la base dati External Wealth of the Nations di Milesi Ferretti scaricabile in rete (qui). Purtroppo dovremo fare a meno dei valori corrispondenti ad alcune posizioni che sono dentro al nostro elenco ma di cui mancano i dati relativi alla NIIP.

Notiamo una cosa interessante, mentre il rapporto debito PIL varia enormemente da caso a caso, quasi tutti i casi fallimento dell'elenco (82%) sono associati a posizioni di debito estero netto (NIIP negativa). Se poi eliminassimo dal campione la Russia del 2022, dichiarata fallita solo per una disputa politica provocata dalla guerra in Ucraina, e alcuni default argentini causati da mancati accordi sul rimborso di somme relativamente risibili, raggiungeremmo la quasi totalità dei casi.

Cosa abbiamo imparato? A fallire sono generalmente i paesi con una posizione debitoria netta con l'estero che non sono per forza quelli con un alto rapporto debito pubblico PIL. 

Se ciò che abbiamo appreso corrisponde al vero, allora è importante sottolineare il fatto che il debito estero netto, al contrario di quello pubblico, è il risultato di attività e passività che, di solito, si originano prevalentemente nel settore privato. Questa scoperta ci apre una finestra sul mondo reale, quello in cui non è detto che l'instabilità finanziaria di un paese sia causata dalle pazze spese di governi alla ricerca di consenso politico, come vorrebbe farci credere certa propaganda. Spesso e volentieri infatti è il settore privato che, dopo aver messo al sicuro i profitti maturati durante il percorso che porta alla crisi, ottiene dalla politica la socializzazione delle perdite accumulate al momento della tempesta. Ma com'è possibile che una crisi nata da un debito privato metta a repentaglio la solvibilità del settore pubblico? Questo lo scopriremo qui.

lunedì 2 giugno 2025

Trump, i dazi e l'elefante nella stanza

Sulla base dei concetti di debito estero e PIL, già brevemente illustrati (qui) e (qui) vorrei tentare qualche ulteriore riflessione su: USA, Cina e UE. Il periodo selezionato è quello che va dal 2008 al 2022. Ho scelto come termine della serie storica quell'anno semplicemente perché è l'ultimo presente nella base dati da me utilizzata per i valori relativi alla posizione netta con l'estero (PNE o, in inglese, NIIP). Ho usato come valore i dollari nominali allo scopo di facilitare il confronto internazionale.

Vediamo cosa dice il grafico sottostante, e la tabella corrispondente (che vi propongo per comodità). Negli Stati Uniti, durante il periodo 2008-2022 il PIL è cresciuto (valori nominali in miliardi di dollari), infatti il punto 2022 della linea azzurra si trova più in alto rispetto a quello 2008. Nello stesso tempo è peggiorata anche la posizione netta sull'estero, o debito estero netto (sempre in dollari nominali), infatti il punto 2022 si trova, tra i valori negativi, più a sinistra di quello 2008. Spero così di aver chiarito come funziona il grafico. Proseguiamo con la Cina (linea rossa) che dal 2008 al 2022 ha avuto una crescita esplosiva e, nello stesso tempo, ha visto aumentare il suo credito estero, a valori nominali. La UE, linea verde, ha sperimentato invece una crescita complessiva più debole ed è passata da una posizione di debito a una di credito estero netto.

Che cosa c'è d'interessante in tutto questo? Partiamo dagli USA. Si nota molto bene come la crescita del PIL sia correlata ad un debito estero in aumento. In questo modo gli americani riescono a finanziare i beni d'importazione, in eccesso rispetto a quelli esportati. Il motore di questo squilibrio è l'elevato livello di spesa (privata e pubblica).

La Cina, al contrario degli USA, ha uno squilibrio in senso opposto. La sua crescita trae impulso dalle esportazioni. C'è però un dettaglio abbastanza importante. Nel paese asiatico, diventato la fabbrica del mondo grazie alla sua manodopera a basso costo, da anni cresce la domanda interna. Questo è dovuto all'aumento dei redditi procapite. Più redditi uguale più importazioni e, se osservate bene la tabella del grafico precedente, noterete il dimezzamento del credito estero in percentuale al PIL, passato dal 30% al 14%. Significa che stanno progressivamente aprendo al mondo il proprio mercato. 

Per la UE, che è un'area economica e non un unico paese, è necessario impostare il discorso su due piani. Complessivamente siamo passati da una posizione di debito a una di credito estero limitando la crescita e, come potete vedere dal grafico successivo, svalutando l'euro sul dollaro quasi del 30%.

Da tempo i governi USA si lamentano di quello che, a loro dire, è una vera e propria manipolazione del cambio da parte alcuni di paesi. Questo è un problema che non riguarda solo la zona euro. Tuttavia bisogna ammettere che la nostra situazione è piuttosto particolare, infatti la moneta unica si è svalutata nei confronti del dollaro in un momento in cui era sempre più richiesta negli USA, a causa del nostro perenne surplus commerciale verso di loro. Quest'operazione ha consentito un minimo di respiro a quei paesi che, per rimanere nell'euro, hanno eseguito delle politiche di svalutazione interna e cioè hanno riequilibrato il saldo estero negativo tagliando i redditi interni per importare di meno.

Veniamo al secondo grafico che considera le quattro maggiori economie UE che, benché nel complesso abbia una posizione attiva verso l'estero, presenta una situazione eterogenea a livello nazionale. Osservate infatti come Italia e Spagna siano rientrate, o stiano rientrando, dal debito estero netto. La Spagna del 2022 era quasi a metà di una lunga strada mentre in Italia l'operazione era già perfettamente riuscita. La Francia invece, a causa delle mancate politiche d'austerità, ha avuto il percorso inverso e oggi ha un alto debito estero netto. Proseguendo su questa china, senza ulteriori politiche di taglio della spesa (sia privata che pubblica) che corregga il saldo estero, l'euro diverrà sempre più insostenibile per i cugini transalpini.

All'opposto della Francia, in Germania la posizione netta con l'estero ha continuato a migliorare. Nel 2022 sfiorava i 3 mila miliardi di dollari (un valore superiore anche a quello cinese) e in rapporto al PIL è passata dal 17% al 70%. Uno squilibrio da record che si è prodotto anche in conseguenza della svalutazione dell'euro che ha avuto un effetto più rilevante sull'economia tedesca, non avendo essa bisogno di un'ulteriore svalutazione per essere competitiva. 

Una politica alternativa alla svalutazione dell'euro sarebbe stata possibile se il governo tedesco avesse trainato la crescita delle zone periferiche del continente sostenendo la propria domanda interna, importando di più. Questo era proprio quello che auspicava l'ex presidente Monti nel 2011. In questa celebre intervista alla CNN esprimeva soddisfazione per aver recuperato competitività sui mercati internazionali, distruggendo la nostra domanda interna tramite il consolidamento fiscale, ma avvertiva che questa situazione sarebbe stata insostenibile senza l'impulso alla crescita fornito dalle esportazioni. 

(qui)

Oggi sappiamo che, a causa della sua impostazione mercantilista quell'apporto positivo alle esportazioni dei paesi in crisi non arrivò dalla Germania, ma dagli USA previa svalutazione dell'euro sul dollaro che, per chi vuole intendere, era proprio quello che raccontava Mario Draghi a Helsinki nel 2014 quando disse: "Non è che i paesi abbiano perso totalmente la flessibilità del cambio entrando nell'unione monetaria perché ad essi rimane la flessibilità del cambio dell'euro" (sul dollaro ovviamente. Qui). Quindi, in pratica, il salvataggio dell'euro ha determinato, tra le varie conseguenze, anche l'esportazione dei nostri squilibri interni verso gli USA e il resto del mondo. Squilibri interni maturati perseguendo intenzionalmente una strategia volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e combinando ciò con una politica fiscale prociclica, con l'effetto di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale (vedi discorso di Mario Draghi a La Hulpe l'anno scorso. Qui).

Quindi, forse, non dovrebbe sembrarci tanto strano che questo atteggiamento da scaricabarile abbia sollevato alcuni dissapori fra noi e Washington. Ad esempio, a molti non sarà sfuggita questa recente dichiarazione del presidente Trump che accusa Bruxelles di essere più cattiva di Pechino. Cosa penso io di quest'affermazione credo sia implicito in questo post, ma vorrei concludere con un'osservazione di metodo più che di merito. 


Una discussione costruttiva su questo argomento dovrebbe partire dalla presa di coscienza del fatto che la globalizzazione del commercio, e della movimentazione dei capitali, ha causato degli importanti squilibri a livello mondiale. Si può considerare la questione come meritevole d'attenzione oppure metterla da parte in attesa che si risolva, o esploda, da sola. Il governo del paese leader del globo, che è anche la nazione più indebitata, ha deciso di prendere in considerazione alcuni strumenti di riequilibrio. Ovviamente può non piacere come viene trattata tutta la vicenda dal suo presidente, rimane tuttavia un elementare fatto aritmetico: se un paese vuole correggere il suo saldo debitorio verso l'estero questa decisione coinvolgerà per forza di cose qualcun altro. Il mondo è un'economia chiusa e non abbiamo partite contabili terrestri compensabili con altri pianeti del sistema solare, o della galassia. In economia, come in ecologia, "There is no planet B". 

Trump può mettere i dazi e questo avrà ripercussioni negative verso altri paesi; può distruggere la domanda interna americana come ha fatto l'ex presidente Monti da noi e questo danneggerebbe le esportazioni di alcuni paesi verso gli USA; può svalutare il dollaro verso le altre valute, o una in particolare, e questo andrebbe a scapito dei produttori di altri paesi. Piaccia o non piaccia il suo presidente, niente di quello che può fare l'America per occuparsi del suo debito può avere un impatto esterno nullo verso l'esterno.

Rimane quindi da discutere come reagire alla necessità di un cliente, un debitore, di ridurre la sua esposizione verso di noi. Perché dovrebbe essere ormai chiaro che un creditore non può far finta che i guai del debitore non lo riguardino. Pertanto il problema è quello di reindirizzare le nostre vendite verso qualcun altro per evitare di perdere fatturato (cioè PIL). Abbiamo visto che la UE è complessivamente un'area in surplus che da anni convive con una bassa crescita, l'esatto contrario degli USA. Sostenere la domanda interna al nostro mercato sarebbe di certo una soluzione gradita anche ai nostri partner internazionali. Peccato che coordinarci per governare l'espansione nostre economie e tenere, nel contempo, a bada i nostri squilibri interni sia un'impresa resa molto più complicata dalla moneta unica. Lo abbiamo visto dopo la crisi del 2008, quando fu necessario il riaggiustamento degli squilibri causati dall'euro durante la precedente fase di crescita (vedi sempre Draghi 2014, citato prima).

Ecco che l'euro risulta essere, ancora una volta, un enorme convitato di pietra. Guai a nominarlo. Esattamente come si fa un gran parlare del surplus cinese senza badare a quello tedesco, più grande, che in tutta questa faccenda è il vero elefante nella stanza, e lo abbiamo proprio qui a casa nostra. 

Se siete interessanti a questo argomento troverete un'analisi più lunga, accurata e professionale della mia su Goofynomics (qui e qui)