Questo blog è nato per divulgare il mio lavoro di autoinformazione che consiste nel pubblicare: dati, opinioni, e testimonianze sugli argomenti che approfondisco. Lo stile sarà sempre quello che, secondo me, distingue una sana informazione dalla propaganda, e cioè separare i fatti dalle teorie e dai giudizi. Seguitemi anche su Twitter. Wendell Gee @WendellGee1985
lunedì 29 settembre 2014
Il crollo del reddito procapite italiano rispetto alla media dei paesi dell'eurozona
Ecco, lo vedete nel grafico qui sopra (per ingrandirlo basta cliccarci su).
Quello che il Prof. Bagnai chiama: "il grafico della vergogna" (qui è descritto passo per passo come si costruisce) è lo scarto fra il reddito italiano medio procapite e quello dei paesi dell'euro.
La storia inizia sempre nel 1996 che, ormai lo sapete, è l'anno in cui i paesi europei che aderiranno all'euro si accordano per fissare i cambi irrevocabili fra le monete che entreranno in vigore a partire dal 1999 (anno di nascita della moneta unica). Come avete potuto leggere ad esempio qui, la lira si rivaluta verso tutte le monete principali, e da quel momento, complici i maggiori tassi d'inflazione con i paesi "virtuosi" come la Germania, inizia, per il nostro paese, un forte declino che è descritto bene nel precedente grafico.
Infatti, nel 1996 c'erano meno di 500 euro di differenza tra il nostro reddito medio procapite annuo e quello dei paesi dell'Eurozona. Oggi, invece, gli euro di differenza sono circa 4.600, e si prevede che nel 2015 saranno 4.900.
Si noti anche che il crollo avvenuto durante il periodo 1996-oggi non ha precedenti nella serie storica che parte nel 1960.
lunedì 22 settembre 2014
I miti sull'inflazione negli anni settanta
Nella storia economica del mondo occidentale, un particolare periodo offre parecchi spunti di discussione. E' quello dell'inflazione degli anni settanta.Quasi sempre ci si imbatte in qualcuno che sostiene che la causa fossero le politiche economiche scriteriate dei governi di allora e della scala mobile, quella misura tale per cui gli stipendi venivano rivalutati in funzione dell'inflazione.
I primi dubbi sulla questione mi sono venuti nel momento in cui ho dato un'occhiata al periodo in cui la scala mobile era in funzione. Stiamo parlando degli anni che vanno dal 1975 al 1992 (quando venne ufficialmente eliminata dal governo Amato) ma era già stata indebolita a partire dal 1984. Insomma, i conti non tornano, e forse, i grafici mostrati qui sotto potranno aiutare a chiarire meglio la faccenda dell'inflazione degli anni settanta, o almeno a indurre il lettore a porsi le stesse domande che mi sono posto io.
I grafici sono quattro, il periodo considerato va dal 1970 al 1987, anno in cui il fenomeno dell'inflazione si era definitivamente attenuato anche in Italia. Sono collegati da due linee verticali che segnano gli anni dei due shock petroliferi che, com'è noto, furono causati:
I primi dubbi sulla questione mi sono venuti nel momento in cui ho dato un'occhiata al periodo in cui la scala mobile era in funzione. Stiamo parlando degli anni che vanno dal 1975 al 1992 (quando venne ufficialmente eliminata dal governo Amato) ma era già stata indebolita a partire dal 1984. Insomma, i conti non tornano, e forse, i grafici mostrati qui sotto potranno aiutare a chiarire meglio la faccenda dell'inflazione degli anni settanta, o almeno a indurre il lettore a porsi le stesse domande che mi sono posto io.
I grafici sono quattro, il periodo considerato va dal 1970 al 1987, anno in cui il fenomeno dell'inflazione si era definitivamente attenuato anche in Italia. Sono collegati da due linee verticali che segnano gli anni dei due shock petroliferi che, com'è noto, furono causati:
- nel 1973 dal conflitto arabo israeliano dello Yom Kippur, e dal conseguente aumento dei prezzi del petrolio voluto dal cartello di produttori dell'OPEC (che era composto per la maggior parte da paesi arabi);
- nel 1979 dalla crisi energetica causata dagli effetti della rivoluzione islamica iraniana che diminuì fortemente la produzione di petrolio.
Il primo grafico mostra la variazione percentuale del prezzo del petrolio (dati annuali copiati dalla web agienergia).
Il secondo grafico è relativo all'andamento dei tassi d'inflazione in Italia e Stati Uniti (i due paesi confrontati in questa analisi). La fonte è l'OCSE.
Il terzo grafico illustra il trend dei tassi d'interesse di reali (al netto dell'inflazione) di lungo periodo. Anche in questo caso la fonte è l'OCSE.
Infine, l'ultimo grafico mostra l'andamento del tasso di disoccupazione, sempre in Italia e negli States, e la fonte è ancora l'OCSE.
Ora, io non pretendo di avere la verità in pugno, ma quantomeno di porre alcune riflessioni che possano ripristinare un poco di lealtà nell'informazione. Infatti, analizzando i grafici uno per uno notiamo che il primo picco d'inflazione, sia in Italia che negli USA, arriva nel 1974, proprio in conseguenza dell'aumento del prezzo del petrolio. La scala mobile non c'era ancora, arriverà solo nel 1975. L'inflazione in USA supera il 10% mentre in Italia sfiora il 20%. Eh, direte voi, c'è una bella differenza tra dieci e venti! Certo, ma vediamo come hanno reagito i due paesi in conseguenza di questo primo evento. Tra il 1973 e il 1974 Gli USA portano i tassi d'interesse a quasi il -4%, mentre in Italia arrivano fino a quasi il -10%. In conseguenza dello shock in America alzano i tassi fino al +2% (un aumento di 6 punti percentuali) mentre in Italia in tassi rimangono negativi più a lungo, fino al 1978. Questo comportamento fa si che da noi la disoccupazione rimanga sostanzialmente la metà di quella USA fino al 1976.
Ora, in un periodo storico chiamato "anni di piombo" in cui il PCI (partito comunista italiano) aveva sempre più consensi, cercare di mantenere la disoccupazione ad un livello più basso, potrebbe essere stata una decisione politica tutt'altro che insensata? Agli storici l'ardua risposta. Di certo, falsità come quelle raccontate qui dal Corriere della Sera sulla disoccupazione del 1977 non aiutano a far luce sulla vera storia di quegli anni.
Veniamo al secondo picco inflattivo. Qui, direte voi, la scala mobile c'era eccome! Sì, però date un'occhiata ancora una volta al primo grafico, quello della variazione del prezzo del petrolio. L'inflazione, ancora una volta cresce man mano che la crisi energetica si fa più pesante, rimane alta per tutto il 1980, e nel 1981 cominciò a diminuire. Io non posso escludere il fatto che all'aumento dell'inflazione possano aver contribuito anche altri fattori come la scala mobile, o la spesa pubblica, però date anche un'occhiata ai tassi d'interesse reali del nostro paese, mantenuti in zona negativa, ben al di sotto dello zero, e di quelli USA tra il 1979 e il 1980. E, anche in questo caso, mentre il tasso di disoccupazione italiano reggeva, quello americano (che nel frattempo era finito al di sotto del nostro) sale, fino a superarlo, per un breve periodo, dopo il 1981.
Certo, da noi l'inflazione raggiunse livelli maggiori che in altri paesi industrializzati, anche se a dirla tutta, il dato OCSE riferito al Regno Unito per l'anno 1975 (qui) fece segnare addirittura un 24,2% e l'anno prima in Giappone i prezzi al consumo salirono fino al 23,2%. Tuttavia, la disoccupazione, in un periodo così tumultuoso per il nostro paese, venne tenuta sotto controllo, almeno fino all'inizio degli anni ottanta, che segnarono la fine del terrorismo e l'inizio di un'altra epoca che è compito degli storici raccontare.
lunedì 15 settembre 2014
Il problema dell'Eurozona sono gli squilibri interni, non il cambio con il dollaro
Dato che, sempre più persone si accorgono del fatto che l'euro è una moneta troppo forte per la nostra economia, c'è sempre qualcuno che, ignorando come stiano le cose effettivamente, pensa che la soluzione ai nostri problemi sia quella di svalutarlo. Purtroppo però la zona euro ha un problema di squilibrio al suo interno, e non con il resto del mondo.
Dall'istituzione della moneta unica, nel corso degli anni, le economie di alcuni paesi membri hanno accumulato ingenti capitali, mentre altre invece si sono indebitate sempre di più. Il grafico qui sotto mostra la posizione netta con l'estero dei vari paesi dell'area euro. Si tratta della differenza fra crediti e debiti di un'economia con il resto del mondo. Per ogni singola posizione ci sono due colonne: la prima (quella blu) mostra il saldo all'ingresso dell'euro, e la seconda (in rosso) il dato riferito all'anno 2013. Ricordo, a chi volesse vedere meglio il grafico qui sotto, che può ingrandirlo semplicemente cliccandoci sopra.
Qui sotto trovate la tabella con tutti i numeri del precedente grafico. Osservate come tutti i PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) hanno peggiorato la loro posizione dall'entrata nell'unione monetaria. Il caso limite è quello dell'Irlanda che è passata da un saldo a credito del 50% del PIL ad uno a debito del 105%, accumulando pertanto un differenziale negativo pari a 155% del PIL. Anche i paesi creditori hanno aumentato il loro saldo, in questo caso positivo.
Posizione netta con l'estero (PNE) dei paesi membri dell'euro:
Fonte Eurostat:
La tabella, e il grafico successivo, mostrano i dati del saldo estero 2013, non più in percentuale del PIL, ma a valori nominali in miliardi di euro.
Posizione netta con l'estero (PNE) dei paesi membri dell'euro:
Fonti: Eurostat (PNE) e Wikipedia (PIL)
Osservate il totale riferito all'area euro, che corrisponde a un saldo leggermente negativo del -6,9% del PIL, poca cosa se confrontato con i ben più rilevanti squilibri che troviamo al suo interno. Praticamente l'intera area è un gioco a somma zero, o se volete, un'enorme tavolo in cui i perdenti non possono ritirarsi, ma sono costretti a continuare a giocare chiedendo i soldi in prestito ai vincitori. E' l'azione dell'euro, quello che perfino la BCE ci ha spiegato con Vitor Constancio ad Atene nel 2013, discorso di cui mi sono occupato in questo precedente post.
In sintesi, il problema è dovuto al fatto che in regime di cambi fissi (o di moneta unica) i capitali si spostano molto più facilmente dai paesi con tassi d'interesse più bassi (che di solito sono i più ricchi) a quelli che invece il capitale lo pagano di più (perché sono più poveri e quindi ne hanno più bisogno). Differentemente, in regime di cambi flessibili, i capitali si muovono con più cautela perché l'investitore, oltre al rendimento dell'operazione, deve valutare anche il rischio di cambio. Insomma, l'euro ha creato una vera e propria bolla speculativa del credito che ha causato gli squilibri evidenziati nelle tabelle e nei grafici mostrati in questo post.
Ma, se la BCE svalutasse in modo considerevole l'euro sul dollaro, diciamo del 20%, cosa succederebbe?
Intanto, le importazioni costerebbero di più. E qui viene da ridere pensando alle parole di alcune delle persone che sostenevano che, per l'Italia, tornare alla lira sarebbe un disastro a causa della svalutazione, ma che accetterebbero di buon grado la stessa cosa all'interno dell'euro. Al contrario, le esportazioni aumenterebbero perché più convenienti per gli acquirenti esteri, che sono quelli fuori dall'area euro.
Tuttavia in conseguenza di una svalutazione, i mercati dell'Eurozona tenderebbero ad incrementare gli acquisti di prodotti e servizi in euro (diventati più economici) in modo particolare da quelle economie più competitive, che sono quelle che hanno già accumulato tanti crediti nel corso degli anni. Inoltre, le esportazioni che trarranno più vantaggio dalla svalutazione saranno sempre quelle dei paesi creditori che, come abbiamo detto, sono i più competitivi. Un'analisi previsionale di quello che succederebbe è disponibile sul pagina web dell'associazione A/Simmetrie del Professore di politica economica Alberto Bagnai (qui) e mostra come il saldo delle partite correnti italiano, che misura il saldo dei flussi finanziari in entrate e uscita dal paese, tenderebbe a peggiorare (anche se di poco) nei primi due anni per poi crescere molto lentamente nel periodo successivo.
Cosa succederebbe invece tornando alla lira?
Lo stesso studio mostra che, in caso di uscita dall'euro, il saldo delle partite correnti italiano migliorerebbe subito, e di parecchio. Perché? Per il fatto che, a differenza di una svalutazione dell'euro che non darebbe al nostro paese alcun vantaggio competitivo nel commercio, limitatamente alla zona euro, il ritorno alla lira farebbe diminuire le importazioni anche dal resto d'Europa, e aumenterebbe la competitività dei prodotti italiani in tutto il mondo.
Un precedente storico può aiutare a confermare quanto sopra scritto. Il grafico qui sotto mostra l'andamento delle partite correnti (CAB) cioè il saldo tra entrate e uscite finanziarie di un'economia, e la posizione netta con l'estero dell'Italia (PNE) nel periodo 1980-2013. Osservate che, l'unico periodo in cui la PNE migliora è durante gli anni novanta, cioè nell'unico momento in cui la moneta del nostro paese, la lira, non era agganciata a nessun cambio con altre valute europee, come il sistema monetario europeo (SME) in cui restammo tra 1979 e il 1992, o l'euro in cui entrammo nel 1999, anche se il processo di aggancio ai cambi irrevocabili decisi nel 1996 cominciò già a a partire dalla seconda metà degli anni novanta. Guardate alla lunga cosa è successo. Nemmeno l'austerità, che pure ha distrutto la domanda interna, e ha pertanto migliorato il saldo delle partite correnti a partire dal 2011, è riuscita a migliorare la nostra posizione netta con l'estero.
I sostenitori dell'euro, si promuovono a difensori dell'integrazione europea, e quindi anche della sua convergenza economica. Invece, dopo più di un decennio dalla sua nascita, la moneta unica ha creato solo squilibri e divergenza tra le economie dei differenti paesi membri, arrivando addirittura a minare lo stesso processo d'integrazione che, a causa del malcontento dovuto alla crisi economica, oggi può essere portato avanti solo in modo antidemocratico, contro la volontà dei popoli del vecchio continente.
Dall'istituzione della moneta unica, nel corso degli anni, le economie di alcuni paesi membri hanno accumulato ingenti capitali, mentre altre invece si sono indebitate sempre di più. Il grafico qui sotto mostra la posizione netta con l'estero dei vari paesi dell'area euro. Si tratta della differenza fra crediti e debiti di un'economia con il resto del mondo. Per ogni singola posizione ci sono due colonne: la prima (quella blu) mostra il saldo all'ingresso dell'euro, e la seconda (in rosso) il dato riferito all'anno 2013. Ricordo, a chi volesse vedere meglio il grafico qui sotto, che può ingrandirlo semplicemente cliccandoci sopra.
Qui sotto trovate la tabella con tutti i numeri del precedente grafico. Osservate come tutti i PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) hanno peggiorato la loro posizione dall'entrata nell'unione monetaria. Il caso limite è quello dell'Irlanda che è passata da un saldo a credito del 50% del PIL ad uno a debito del 105%, accumulando pertanto un differenziale negativo pari a 155% del PIL. Anche i paesi creditori hanno aumentato il loro saldo, in questo caso positivo.
Posizione netta con l'estero (PNE) dei paesi membri dell'euro:
Fonte Eurostat:
Debitori: | |||||
paese | anno di entrata € | PNE entata € | PNE 2013 | diff.accumulato | note |
Grecia | 2001 | -46,5% | -119,3% | -72,8% | |
Portogallo | 1999 | -31,5% | -118,7% | -87,2% | |
Irlanda | 1999 | 50,4% | -104,9% | -155,3% | |
Spagna | 1999 | -32,1% | -98,2% | -66,1% | |
Cipro | 2008 | -15,1% | -85,7% | -70,6% | |
Slovacchia | 2009 | -66,7% | -65,1% | 1,6% | |
Lettonia | 2014 | n.d. | -65,0% | n.a. | è entrata nell'euro nel 2014 |
Estonia | 2011 | -56,4% | -47,5% | 8,9% | |
Slovenia | 2007 | -21,8% | -38,7% | -16,9% | |
Italia | 1999 | -5,0% | -29,5% | -24,5% | |
Francia | 1999 | -8,0% | -21,1% | -13,1% | valore 2013 n.d. inserito 2012 |
media diff.: | -49,6% | ||||
media diff. (senza Irlanda): | -37,9% | ||||
Creditori | |||||
paese | anno di entrata € | PNE entata € | PNE 2013 | diff.accumulato | note |
Austria | 1999 | -26,2% | 0,5% | 26,7% | |
Finlandia | 1999 | -175,4% | 15,8% | 191,2% | |
Malta | 2008 | 2,6% | 23,6% | 21,0% | |
Belgio | 1999 | 36,6% | 45,8% | 9,2% | valore 1999 n.d. inserito 2002 |
Paesi Bassi | 1999 | -8,2% | 46,3% | 54,5% | |
Germania | 1999 | 4,5% | 48,4% | 43,9% | |
Lussemburgo | 1999 | 100,4% | 184,1% | 83,7% | valore 1999 n.d. inserito 2002 |
media diff.: | 61,5% | ||||
media diff. (senza Finlandia): | 39,8% |
La tabella, e il grafico successivo, mostrano i dati del saldo estero 2013, non più in percentuale del PIL, ma a valori nominali in miliardi di euro.
Posizione netta con l'estero (PNE) dei paesi membri dell'euro:
Fonti: Eurostat (PNE) e Wikipedia (PIL)
PNE 2013 | |||
PIL in miliardi € | in % PIL | in miliardi € | |
Spagna | 1.023 | -98,2% | -1.004,6 |
Italia | 1.560 | -29,5% | -460,2 |
Francia | 2.060 | -21,1% | -434,6 |
Grecia | 182 | -119,3% | -217,2 |
Portogallo | 166 | -118,7% | -196,7 |
Irlanda | 164 | -104,9% | -172,1 |
Slovacchia | 72 | -65,1% | -47,0 |
Lettonia | 23 | -65,0% | -15,2 |
Cipro | 17 | -85,7% | -14,1 |
Slovenia | 35 | -38,7% | -13,7 |
Estonia | 18 | -47,5% | -8,8 |
Austria | 313 | 0,5% | 1,6 |
Malta | 7 | 23,6% | 1,7 |
Finlandia | 313 | 15,8% | 49,5 |
Lussemburgo | 45 | 184,1% | 83,7 |
Belgio | 383 | 45,8% | 175,3 |
Paesi Bassi | 603 | 46,3% | 279,0 |
Germania | 2.738 | 48,4% | 1.325,0 |
Eurozona | 9.722 | -6,9% | -668,3 |
Osservate il totale riferito all'area euro, che corrisponde a un saldo leggermente negativo del -6,9% del PIL, poca cosa se confrontato con i ben più rilevanti squilibri che troviamo al suo interno. Praticamente l'intera area è un gioco a somma zero, o se volete, un'enorme tavolo in cui i perdenti non possono ritirarsi, ma sono costretti a continuare a giocare chiedendo i soldi in prestito ai vincitori. E' l'azione dell'euro, quello che perfino la BCE ci ha spiegato con Vitor Constancio ad Atene nel 2013, discorso di cui mi sono occupato in questo precedente post.
In sintesi, il problema è dovuto al fatto che in regime di cambi fissi (o di moneta unica) i capitali si spostano molto più facilmente dai paesi con tassi d'interesse più bassi (che di solito sono i più ricchi) a quelli che invece il capitale lo pagano di più (perché sono più poveri e quindi ne hanno più bisogno). Differentemente, in regime di cambi flessibili, i capitali si muovono con più cautela perché l'investitore, oltre al rendimento dell'operazione, deve valutare anche il rischio di cambio. Insomma, l'euro ha creato una vera e propria bolla speculativa del credito che ha causato gli squilibri evidenziati nelle tabelle e nei grafici mostrati in questo post.
Ma, se la BCE svalutasse in modo considerevole l'euro sul dollaro, diciamo del 20%, cosa succederebbe?
Intanto, le importazioni costerebbero di più. E qui viene da ridere pensando alle parole di alcune delle persone che sostenevano che, per l'Italia, tornare alla lira sarebbe un disastro a causa della svalutazione, ma che accetterebbero di buon grado la stessa cosa all'interno dell'euro. Al contrario, le esportazioni aumenterebbero perché più convenienti per gli acquirenti esteri, che sono quelli fuori dall'area euro.
Tuttavia in conseguenza di una svalutazione, i mercati dell'Eurozona tenderebbero ad incrementare gli acquisti di prodotti e servizi in euro (diventati più economici) in modo particolare da quelle economie più competitive, che sono quelle che hanno già accumulato tanti crediti nel corso degli anni. Inoltre, le esportazioni che trarranno più vantaggio dalla svalutazione saranno sempre quelle dei paesi creditori che, come abbiamo detto, sono i più competitivi. Un'analisi previsionale di quello che succederebbe è disponibile sul pagina web dell'associazione A/Simmetrie del Professore di politica economica Alberto Bagnai (qui) e mostra come il saldo delle partite correnti italiano, che misura il saldo dei flussi finanziari in entrate e uscita dal paese, tenderebbe a peggiorare (anche se di poco) nei primi due anni per poi crescere molto lentamente nel periodo successivo.
Cosa succederebbe invece tornando alla lira?
Lo stesso studio mostra che, in caso di uscita dall'euro, il saldo delle partite correnti italiano migliorerebbe subito, e di parecchio. Perché? Per il fatto che, a differenza di una svalutazione dell'euro che non darebbe al nostro paese alcun vantaggio competitivo nel commercio, limitatamente alla zona euro, il ritorno alla lira farebbe diminuire le importazioni anche dal resto d'Europa, e aumenterebbe la competitività dei prodotti italiani in tutto il mondo.
Un precedente storico può aiutare a confermare quanto sopra scritto. Il grafico qui sotto mostra l'andamento delle partite correnti (CAB) cioè il saldo tra entrate e uscite finanziarie di un'economia, e la posizione netta con l'estero dell'Italia (PNE) nel periodo 1980-2013. Osservate che, l'unico periodo in cui la PNE migliora è durante gli anni novanta, cioè nell'unico momento in cui la moneta del nostro paese, la lira, non era agganciata a nessun cambio con altre valute europee, come il sistema monetario europeo (SME) in cui restammo tra 1979 e il 1992, o l'euro in cui entrammo nel 1999, anche se il processo di aggancio ai cambi irrevocabili decisi nel 1996 cominciò già a a partire dalla seconda metà degli anni novanta. Guardate alla lunga cosa è successo. Nemmeno l'austerità, che pure ha distrutto la domanda interna, e ha pertanto migliorato il saldo delle partite correnti a partire dal 2011, è riuscita a migliorare la nostra posizione netta con l'estero.
I sostenitori dell'euro, si promuovono a difensori dell'integrazione europea, e quindi anche della sua convergenza economica. Invece, dopo più di un decennio dalla sua nascita, la moneta unica ha creato solo squilibri e divergenza tra le economie dei differenti paesi membri, arrivando addirittura a minare lo stesso processo d'integrazione che, a causa del malcontento dovuto alla crisi economica, oggi può essere portato avanti solo in modo antidemocratico, contro la volontà dei popoli del vecchio continente.
mercoledì 10 settembre 2014
La BCE ha abbassato i tassi d'interesse (un'altra volta)
Oggi, 10 settembre entrano in vigore i nuovi tassi d'interesse della BCE. Si tratta dell'ennesimo ritocco dal 2008 (questi sono i dati ufficiali).
Secondo voi, un taglio ulteriore dello 0,10% dopo una caduta di oltre il 3% cosa dovrebbe cambiare?
Niente, naturalmente.
In ogni caso qui il problema maggiore sta nel fatto che l'approccio "one size fits all", cioè un solo tasso d'interesse per paesi con tassi d'inflazione e disoccupazione tanto diversi, non andrà mai bene. In Italia non sono gli alti tassi d'interesse a mantenerci in recessione ma le aspettative negative sulla domanda di consumi. Al contrario, per la Germania, un tasso d'interesse così basso rischia di essere negativo per l'economia nel lungo periodo.
Secondo voi, un taglio ulteriore dello 0,10% dopo una caduta di oltre il 3% cosa dovrebbe cambiare?
Niente, naturalmente.
In ogni caso qui il problema maggiore sta nel fatto che l'approccio "one size fits all", cioè un solo tasso d'interesse per paesi con tassi d'inflazione e disoccupazione tanto diversi, non andrà mai bene. In Italia non sono gli alti tassi d'interesse a mantenerci in recessione ma le aspettative negative sulla domanda di consumi. Al contrario, per la Germania, un tasso d'interesse così basso rischia di essere negativo per l'economia nel lungo periodo.
lunedì 8 settembre 2014
Il problema della produttività in Italia
Questa primavera, intervenendo a un convegno a Trento, il Ministro dell'Economia Padoan ha dichiarato che il problema del nostro Paese è la produttività (vedi qui).
Qui sotto potete vedere il grafico dell'andamento della produttività del lavoro in Italia e Germania.
Ma, cos'è, la produttività?
Misura il rapporto fra la quantità di prodotto ottenuta e il costo del fattore lavoro impiegato.
Come aumenta la produttività?
Dato che, come abbiamo visto, l'indice è un rapporto fra due grandezze, per farlo crescere si può incidere sull'una o sull'altra, ovvero aumentando il prodotto o diminuendo il fattore il lavoro.
Per aumentare il prodotto nazionale occorre vendere di più. Se ridate un'occhiata al grafico iniziale osserverete come la produttività del lavoro italiana inizia a rallentare a metà anni novanta, in contemporanea con la rivalutazione della lira, necessaria a raggiungere i cambi irrevocabili con le altre monete dell'area euro che sarebbero entrati in vigore dal primo gennaio 1999. La rivalutazione della nostra moneta avvenuta nella seconda metà degli anni novanta ha ottenuto l'effetto di peggiorare il saldo delle partite correnti (ho già trattato questo argomento qui). Un modo per agire sul prodotto sarebbe quello di uscire dall'euro e lasciare svalutare la lira. In questo modo calerebbero le importazioni (più care) e la produzione nostrana tornerebbe a essere più competitiva.
Il sistema scelto dal Governo e dai suoi consulenti, invece (vedi anche post precedenti qui e qui) è quello di abbassare il costo del lavoro. Questo si può fare licenziando e/o riducendo gli stipendi (soprattutto di chi entra, o rientra, nel mercato del lavoro).
Ma il costo del lavoro in Italia è così alto?
Per convincerci a fare leva sul costo del lavoro, alcuni "esperti" mostrano il successivo grafico, che indica l'andamento del costo del lavoro unitario in Italia e Germania, che è il costo del lavoro medio per unità di prodotto. In Italia, purtroppo, è andando crescendo sempre di più mentre in Germania è rimasto piuttosto stabile.
Tuttavia, anche questo indicatore è un rapporto (tra produttività e costo del lavoro). Se diamo un'occhiata agli stipendi reali (quelli a cui è sottratta l'inflazione) scopriamo che sia il governo tedesco che il nostro hanno praticato le stesse politiche del lavoro flessibili per mantenere stabile il livello del costo del lavoro durante gli anni 2000. Da noi le hanno chiamate leggi Treu e Biagi, mentre in Germania sono state le riforme Hartz, un signore che, tra le altre cose, ha poi avuto alcune vicissitudini giudiziarie (la corruzione non è solo un fenomeno italiano).
Quindi, quello che fa aumentare il nostro costo unitario non sono gli stipendi sempre più alti, ma è il rallentamento della produzione italiana (e quindi delle vendite) rispetto a quella tedesca. Infatti, il costo orario di un lavoratore italiano è, secondo l'Eurostat, in media rispetto a quello europeo (vedi qui).
Pertanto, la vera questione è che il Governo vuole far pagare a voi: impiegati, operai, liberi professionisti, etc. etc. la permanenza dell'Italia nell'euro.
Qui sotto potete vedere il grafico dell'andamento della produttività del lavoro in Italia e Germania.
L'indice di produttività tedesco inserito parte dal 1991 perché è quello della Germania riunificata |
Ma, cos'è, la produttività?
Misura il rapporto fra la quantità di prodotto ottenuta e il costo del fattore lavoro impiegato.
Come aumenta la produttività?
Dato che, come abbiamo visto, l'indice è un rapporto fra due grandezze, per farlo crescere si può incidere sull'una o sull'altra, ovvero aumentando il prodotto o diminuendo il fattore il lavoro.
Per aumentare il prodotto nazionale occorre vendere di più. Se ridate un'occhiata al grafico iniziale osserverete come la produttività del lavoro italiana inizia a rallentare a metà anni novanta, in contemporanea con la rivalutazione della lira, necessaria a raggiungere i cambi irrevocabili con le altre monete dell'area euro che sarebbero entrati in vigore dal primo gennaio 1999. La rivalutazione della nostra moneta avvenuta nella seconda metà degli anni novanta ha ottenuto l'effetto di peggiorare il saldo delle partite correnti (ho già trattato questo argomento qui). Un modo per agire sul prodotto sarebbe quello di uscire dall'euro e lasciare svalutare la lira. In questo modo calerebbero le importazioni (più care) e la produzione nostrana tornerebbe a essere più competitiva.
Il sistema scelto dal Governo e dai suoi consulenti, invece (vedi anche post precedenti qui e qui) è quello di abbassare il costo del lavoro. Questo si può fare licenziando e/o riducendo gli stipendi (soprattutto di chi entra, o rientra, nel mercato del lavoro).
Ma il costo del lavoro in Italia è così alto?
Per convincerci a fare leva sul costo del lavoro, alcuni "esperti" mostrano il successivo grafico, che indica l'andamento del costo del lavoro unitario in Italia e Germania, che è il costo del lavoro medio per unità di prodotto. In Italia, purtroppo, è andando crescendo sempre di più mentre in Germania è rimasto piuttosto stabile.
Tuttavia, anche questo indicatore è un rapporto (tra produttività e costo del lavoro). Se diamo un'occhiata agli stipendi reali (quelli a cui è sottratta l'inflazione) scopriamo che sia il governo tedesco che il nostro hanno praticato le stesse politiche del lavoro flessibili per mantenere stabile il livello del costo del lavoro durante gli anni 2000. Da noi le hanno chiamate leggi Treu e Biagi, mentre in Germania sono state le riforme Hartz, un signore che, tra le altre cose, ha poi avuto alcune vicissitudini giudiziarie (la corruzione non è solo un fenomeno italiano).
Quindi, quello che fa aumentare il nostro costo unitario non sono gli stipendi sempre più alti, ma è il rallentamento della produzione italiana (e quindi delle vendite) rispetto a quella tedesca. Infatti, il costo orario di un lavoratore italiano è, secondo l'Eurostat, in media rispetto a quello europeo (vedi qui).
Pertanto, la vera questione è che il Governo vuole far pagare a voi: impiegati, operai, liberi professionisti, etc. etc. la permanenza dell'Italia nell'euro.
lunedì 1 settembre 2014
Il Corriere della Sera e le notizie (false) sulla disoccupazione
In data 2 aprile 2014, il Corriere della Sera è uscito con la seguente notizia in prima pagina:
"Tanti disoccupati come nel '77"
La notizia ha fatto un certo scalpore (più che altro su internet) per il semplice motivo che era totalmente falsa!
Infatti, l'andamento della disoccupazione italiana dal 1960 al 2013 è il seguente (fonte OCSE):
Per chi volesse consultare i dati ISTAT (che sono praticamente identici) sono disponibili a questo link. Il dato di aprile 2014 è il 12,6%. E' pertanto incontestabile il fatto che oggi i disoccupati siano molti di più che nel 1977.
Quello del Corriere della Sera potrebbe anche essere stato un errore involontario, tuttavia, già a gennaio 2014 era uscito, on line, un articolo con un titolo simile:
"Disoccupazione giovanile al 41,6%: al top dal '77"
Nel frattempo, gli spin doctor lavoravano sulla notizia (e sulla buona fede di chi pensa di essere informato) e nei talk show qualche ospite incominciava a divulgare, non sappiamo se cosciente o meno, l'errata informazione che la disoccupazione era ai livelli del 1977.
Poi, il primo aprile (il giorno precedente l'uscita cartacea) sempre il Corriere on line pubblicò la seguente notizia:
"Disoccupazione mai così alta dal 1977"
Alcuni utenti fecero notare che il titolo era fuorviante, dato che il 1977 era semplicemente il primo anno di rilevazione del dato di disoccupazione mensile da parte dell'ISTAT. La disoccupazione, infatti, era semplicemente la più alta di sempre (ci sono serie storiche annuali ben più vecchie). Non solo queste persone rimasero inascoltate, ma il giorno dopo il titolista del Corriere della Sera ha deciso di uscire con questo titolo:
Con il seguente risultato su Twitter (pubblico solo un paio di esempi, trovate qui il resto):
Naturalmente, qualche giorno dopo il giornale ha pubblicato una rettifica (non in prima pagina, ovvio). Ma il danno ormai è fatto, o l'obiettivo comunicativo comunque raggiunto. Nel senso che il titolo ha avuto molto più successo della rettifica.
Ma qualcuno si è chiesto come mai il Corriere della Sera vorrebbe far credere ai propri lettori che nel 1977 la disoccupazione fosse molto alta? Io un'idea ce l'avrei, ma me la tengo per me perché non sono abituato esporre i miei argomenti sulla base di congetture. Resta comunque il fatto, grave, che hanno pubblicato in prima pagina una notizia semplicemente falsa.
La notizia ha fatto un certo scalpore (più che altro su internet) per il semplice motivo che era totalmente falsa!
Infatti, l'andamento della disoccupazione italiana dal 1960 al 2013 è il seguente (fonte OCSE):
Per chi volesse consultare i dati ISTAT (che sono praticamente identici) sono disponibili a questo link. Il dato di aprile 2014 è il 12,6%. E' pertanto incontestabile il fatto che oggi i disoccupati siano molti di più che nel 1977.
Quello del Corriere della Sera potrebbe anche essere stato un errore involontario, tuttavia, già a gennaio 2014 era uscito, on line, un articolo con un titolo simile:
"Disoccupazione giovanile al 41,6%: al top dal '77"
Nel frattempo, gli spin doctor lavoravano sulla notizia (e sulla buona fede di chi pensa di essere informato) e nei talk show qualche ospite incominciava a divulgare, non sappiamo se cosciente o meno, l'errata informazione che la disoccupazione era ai livelli del 1977.
Poi, il primo aprile (il giorno precedente l'uscita cartacea) sempre il Corriere on line pubblicò la seguente notizia:
"Disoccupazione mai così alta dal 1977"
Alcuni utenti fecero notare che il titolo era fuorviante, dato che il 1977 era semplicemente il primo anno di rilevazione del dato di disoccupazione mensile da parte dell'ISTAT. La disoccupazione, infatti, era semplicemente la più alta di sempre (ci sono serie storiche annuali ben più vecchie). Non solo queste persone rimasero inascoltate, ma il giorno dopo il titolista del Corriere della Sera ha deciso di uscire con questo titolo:
Con il seguente risultato su Twitter (pubblico solo un paio di esempi, trovate qui il resto):
Naturalmente, qualche giorno dopo il giornale ha pubblicato una rettifica (non in prima pagina, ovvio). Ma il danno ormai è fatto, o l'obiettivo comunicativo comunque raggiunto. Nel senso che il titolo ha avuto molto più successo della rettifica.
Ma qualcuno si è chiesto come mai il Corriere della Sera vorrebbe far credere ai propri lettori che nel 1977 la disoccupazione fosse molto alta? Io un'idea ce l'avrei, ma me la tengo per me perché non sono abituato esporre i miei argomenti sulla base di congetture. Resta comunque il fatto, grave, che hanno pubblicato in prima pagina una notizia semplicemente falsa.
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