lunedì 23 febbraio 2015

Più Europa e più mercato, ma per carità, meno democrazia.

Non so se voi avete avuto la stessa impressione, ma io sto notando, da parte di alcune mie conoscenze, una tendenza a considerare sempre più negativamente la partecipazione democratica. Quella dal basso, come la democrazia diretta, ma non solo, ogni forma di allargare i dibattiti è considerata da costoro alla stregua di una perdita di tempo dannosa per l'inevitabile ritardo che essi causano al processo decisionale. Credo che quest'opinione si stia radicando, col passare del tempo, a causa del fastidio che molti provano nel vedere i politici litigare senza che questo porti ad alcun miglioramento della nostra condizione.

Credo che  sia un'opinione diffusa quella che sostiene che bisogna fare qualcosa, quale che sia, purché si faccia presto. E per questo bisogna affidarci a governi forti e maggioranze sicure. Perché altrimenti ci facciamo bloccare da quelli che dicono sempre no a tutto. Ma, il mantra del governo forte che ci viene raccontato da tempo è giustificato dai fatti?

Sarà che riforme come quelle della giustizia che dovrebbero avere il compito di diminuire la lunghezza dei processi, o una legge contro la corruzione sono rallentate dai dissidi, di volta in volta, presenti nelle varie maggioranze. Ma cosa rende tanto sicuri i nostri amici decisionisti che accentrare le decisioni nelle mani di pochi renderebbe queste riforme possibili e soprattutto efficaci? Già, perché coloro i quali invocano una maggiore concentrazione del potere nelle mani di pochi, di solito, sono proprio gli stessi che poi votano proprio quelle persone (e quei partiti) che fino ad oggi, nonostante maggioranze forti come quelle del governo Monti (o dell'ultimo governo Berlusconi) non si sono dimostrate efficaci nelle cosiddette "riforme".

C'è poi una questione non da poco. Ma siamo sicuri che i problemi di cui ci lamentiamo quotidianamente siano dovuti all'immobilismo? O sono piuttosto causati da una serie di pessime decisioni prese nel tempo mentre noi ci facevamo, giustamente, i fatti nostri?

Chi mi segue sa che la Banca Centrale Europea ha spiegato che la crisi in cui ci troviamo non sia stata causata dalle mancate riforme, ma piuttosto dalle conseguenze della nostra adesione all'euro, per altro avvenuta senza chiedere il parere della popolazione ma affidandoci solo al giudizio dei suoi rappresentanti. Il governo e tutta la maggioranza ovviamente negano, e rilanciano con lo slogan degli stati uniti d'Europa. Tra l'altro, in modo molto riservato, quasi segreto, per mezzo della Commissione Europea, i nostri governi stanno trattando proprio in questo periodo un nuovo accordo con gli USA per un'area di libero commercio transatlantica, il TTIP. E' per il nostro bene, ma per ora non dobbiamo saperne niente.

Il problema del debito pubblico, che teneva banco fino a qualche tempo fa e, stranamente, ora che è aumentato nessuno ne parla più, si è originato da una decisione presa nel 1981 dall'allora ministro Andreatta insieme al governatore della Banca d'Italia Ciampi. I due conclusero che, per il nostro bene, i tassi d'interesse dei titoli pubblici dovevano essere decisi dal mercato. Il fatto storico è noto come il divorzio tra Ministero e Banca d'Italia, e nessun italiano è mai stato interpellato a riguardo.

Potete osservare da questo grafico come il rapporto debito pubblico PIL esploda in due momenti storici, nel 1981 a causa del "divorzio" e in conseguenza delle politiche di austerità seguita alla crisi attuale.
Negli ultimi 20-30 anni, i governi che si sono succeduti hanno fatto ristagnare i redditi da lavoro e fatto crollare la quota salari sul PIL a favore dei redditi da capitale, senza trovare opposizione in parlamento, e nel silenzio generale dei media. Il tutto tramite provvedimenti come la precarizzazione del posto di lavoro, salvo poi causare una crisi di domanda senza precedenti. Chissà se a posteriori, qualche imprenditore iscritto a Confindustria, che era così contento dei suoi co.co.pro. a 500 euri, ora si è fatto venire il dubbio che, forse, se tutti guadagnano meno è più difficile far crescere il fatturato della fabbrichetta. Il jobs act di recente approvazione è la seconda riforma del lavoro in tre anni, e la quarta in meno di venti, sempre a svantaggio dei nostri redditi. Ma è per il nostro bene.

Notate come il reddito medio pro capite degli italiani a confronto di quelli degli altri paesi europei inizia a crollare fin nel 1996, ovvero dalla nostra adesione ai cambi irrevocabili poi entrati in vigore nel 1999 con l'euro che ha reso sempre più necessaria la svalutazione del fattore lavoro: legge Treu 1997, Biagi 2003, Fornero 2012, Jobs Act 2014.
Ora, il chiodo fisso dei nostri governanti è la riforma costituzionale, dato che in questi ultimi anni abbiamo avuto troppa democrazia, e si sono fatte troppe discussioni per nulla (quali?). Essa dovrà velocizzare l'approvazione delle leggi ponendo fine al bicameralismo perfetto e, tra le altre cose, triplicare le firme da raccogliere per le leggi d'iniziativa popolare. Inoltre, la nuova legge elettorale dovrà consentire a chi vince di governare da solo con un bel premio di maggioranza, e con dei deputati, in larga parte, scelti dalle segreterie di partito. Un po' come dire: "lasciateci lavorare in pace, è per il vostro bene".

Che situazione paradossale, no? I diritti le tutele di chi sta alla base della piramide vengono tagliati nonostante la maggiore debolezza ed esposizione ai cambiamenti repentini, e nello stesso tempo il vertice pretende sempre maggiore stabilità e potere. Ma è sempre tutto per il nostro bene. 


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