lunedì 25 maggio 2015

Economisti che avevano previsto il disastro dell'euro: terzo episodio

In questo post continua la serie di articoli scientifici scritti da importanti economisti che si sono schierati contro l’euro, o che ne avevano previsto i rischi. Chi volesse rileggere le due precedenti puntate può farlo qui e qui.

Nel 1991, Tony Thirlwall, professore di economia applicata all'univestià del Kent (in Inghilterra), pubblicava sul Financial Times il seguente articolo intitolato: “EMU is not cure for problems with balance of payments”. L’Unione monetaria europea (EMU, cioè l’euro) non è la cura per i problemi della bilancia dei pagamenti.

Quello che Thirlwall racconta è la semplice constatazione di come gli squilibri commerciali tra paesi importatori ed esportatori non verranno sistemati, dalla sera alla mattina, semplicemente tramite l'adozione dell'euro.

All'interno di una nazione, gli squilibri tra le regioni più ricche e quelle più povere vengono compensati tramite politiche fiscali ed economiche interne. Ad esempio, i trasferimenti di capitali dal nord al meridione d'Italia. Invece, a livello internazionale, è il cambio fra le valute a funzionare da regolatore degli squilibri commerciali. A un aumento delle importazioni seguirà una svalutazione della moneta del paese importatore, e una rivalutazione di quella dell'esportatore. Questo rende più costose le importazioni nel paese con la moneta che si svaluta e, di conseguenza, avvantaggia le produzioni interne.

Con l'unione monetaria, essendo bandita ogni fluttuazione tra i cambi (perché, le stesse valute nazionali non esistono più), le regioni meno floride dell’unione devono essere finanziate da quelle più ricche. In caso contrario, l’aggiustamento di competitività ricade sui lavoratori, tramite l'aumento dei tassi di disoccupazione.

In effetti Thirlwall ci aveva visto giusto, prevedendo sia l'esplosione del flusso dei capitali dai paesi più ricchi a quelli più poveri dell'Eurozona (vedi qui), sia la crescita dei tassi di disoccupazione di quelle nazioni sottoposte all'austerità (che altro non è che un tentativo di recupero di competitività) dopo il blocco improvviso dei finanziamenti provenienti dal centro e del nord Europa a seguito della crisi (vedi qui).

Il secondo articolo che vi propongo, Europe's monetary union, the case against EMU, è stato scritto da Martin Feldstein (professore dell'università di Harvard ed ex consigliere economico di Ronald Reagan), e pubblicato nel 1992 sulla prestigiosa rivista The Economist. Le teorie economiche abbracciate da quest'ultimo economista sono opposte a quelle di Thirlwall che è un keynesiano, ma le conclusioni sull'euro sono ugualmente negative.

Feldstein osservava come, dopo la firma del trattato di Maastricht, i leader politici europei iniziavano a porsi una domanda che, secondo lui, avrebbero dovuto farsi prima di approvare il suddetto trattato. E cioè: <<I benefici economici saranno sufficienti a compensare gli svantaggi politici derivanti da una struttura federale che seguirà l’adozione di una moneta unica?>>.

L'autore, ritiene che l'ovvia conclusione del trattato di Maastricht sarà l'unione monetaria, e manifesta la sua contrarietà all'euro come strumento economico sostenendo che, dato che sarebbe stato di sicuro uno svantaggio, la domanda giusta da porsi era, casomai, se: <<I vantaggi politici derivanti dall’adozione di una moneta unica compenseranno gli svantaggi in termini economici?>>.

La critica di Feldstein è piuttosto articolata e tocca diversi argomenti. Per prima cosa, egli ritiene che, al contrario di quanto sostenevano gli esperti dell'Unione Europea, non c’era alcuna evidenza del fatto che la moneta unica avrebbe favorito il commercio intraeuropeo.

In secondo luogo, l’adozione dell'euro avrebbe comportato l’addio alle politiche monetarie nazionali, rendendo perciò impossibile, a livello locale, l'esecuzione di ogni politica anti ciclica necessaria durante le crisi economiche future. Feldstein avvertiva già allora i politici europei del fatto che, in pratica, in caso di crisi, non ci sarebbe stata alcuna alternativa all'austerità.

Feldstein osserva come gli aggiustamenti di competitività necessari per la convergenza delle economie europee sarebbero ricaduti sui prezzi e sugli stipendi, e questo avrebbe causato deflazione e maggiore disoccupazione nei paesi meno competitivi (la stessa conclusione a cui era arrivato Thirlwall). Infatti, non essendo l'Eurozona un'area valutaria ottimale (vedi qui) è precluso qualsiasi aggiustamento in termine di mobilità del fattore lavoro. In pratica, questo significa che le diverse lingue, culture e leggi, presenti in ogni paese europeo rendono più difficile rispetto agli USA la mobilità sociale, che consiste nell'emigrazione delle popolazioni dalle aree più povere a quelle più ricche, alla ricerca di un lavoro.

L’autore conclude giudicando comprensibile l’adozione di una moneta unica solo a livello politico, come primo passo verso una futura Europa federale.

Io penso che, se questo fosse vero, cioè che i politici hanno creato l’euro per indurci ad accettare l’unione politica, la soluzione migliore sarebbe stata quella di indire già allora un referendum sugli Stati Uniti d’Europa in tutti i paesi aderenti alla UE. Ma, evidentemente, i nostri leader erano convinti che questa soluzione non fosse, allora, politicamente praticabile. Ma, come disse Romano Prodi nel 2001: <<un giorno ci sarà un crisi…>> e saremo disposti a buttarci nelle fiamme dell'inferno pur di uscirne. E' vero, Prodi non disse esattamente queste parole, ma secondo me il senso era molto probabilmente quello. Perché non provate a giudicare voi (qui)?.

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