Con questo post si arricchisce il ciclo sugli economisti che, in tempi non sospetti, avevano previsto le amare conseguenze dell'euro. Per leggere le precedenti quattro puntate cliccate sui seguenti collegamenti: I - II - III - IV.
Lo scopo di queste testimonianze è, come sempre, quello di dimostrare che la crisi in cui ci troviamo, causata dall'euro, non è affatto imprevista, o provocata da eventi eccezionali, ma che gli effetti dell'adozione di una moneta unica erano ben noti agli addetti ai lavori già prima che questo progetto vedesse la luce.
La quinta evidenza che porto alla vostra attenzione per dimostrarvelo è l'intervista che, nel 1992, il giornalista Mario Pirani fece al prestigioso economista britannico dell'università di Cambridge Frank Hahn. L'articolo, intitolato "Con la moneta unica avremo più disoccupati"è ancora oggi disponibile on-line nell'archivio storico del giornale La Repubblica.
Il Prof. Hahn comincia affermando che, in effetti, non si può considerare l'economia come una vera scienza: "Ho sempre creduto che la teoria economica avesse molta strada da fare per arrivare soltanto a metà cammino verso la cosiddetta scientificità". Fino a questo punto nulla di particolarmente eccitante. Anzi, queste modeste parole di un importante uomo di scienza, estrapolate dal loro contesto, daranno sicuramente modo a chi, non provando alcun vero interesse per l'economia, vorrebbe semplicemente evitare di considerare seriamente le teorie degli economisti. In questo senso, poter dire che l'economia non è una scienza è la massima aspirazione per chi pretende di parlare liberamente di questo argomento, senza peraltro volerlo studiare.
Il punto interessante però è che, nonostante l'intervistato ammetta tranquillamente i limiti delle teorie economiche, alla domanda specifica sull'euro risponde così: "Ho tenuto qualche tempo fa una lezione alla Banca d'Italia dove ho spiegato, dal punto di vista teorico, perché l'unione monetaria va contro quasi tutto quello che sappiamo di economia".
Il professore di Cambridge, che aveva già allora le idee chiarissime sull'argomento, prosegue: "C'è una teoria dell'area monetaria ottimale in cui si dice che la mobilità dei fattori della produzione è cruciale per il raggiungimento degli equilibri [...]. Ora, la mobilità del lavoro è abbastanza elevata tra Inghilterra e Scozia, ma non altrettanto in Europa, per differenze culturali, di lingua, di costumi sociali e, quindi, fissare i tassi di cambio non è una buona idea".
La previsione dell'economista di Cambridge è la seguente: "Con l'unione monetaria, invece delle fluttuazioni del cambio si avranno fluttuazioni nel tasso di disoccupazione".
A questo punto, la domanda che mi sento rivolgere spesso è: "perché hanno fatto tutto questo pur sapendo che non avrebbe funzionato?". Non è che io non voglia rispondere a questa legittima curiosità. Il punto però è che, molto spesso, chi me la rivolge pensa di poter mettere in dubbio il fatto stesso che l'euro abbia causato la crisi in Europa, solo sulla base del proprio giudizio sul mio parere personale, riguardo al motivo per cui esso sia stato comunque adottato. In breve, se quello che rispondo alla sua "domanda a trabocchetto" gli sembra lievemente "complottista" o "politicamente orientato" lui (o lei) si sentono legittimati, nonostante tutto, ad archiviare la questione. Questo è il classico "salvagente" che aiuta la psiche umana a rimanere nella propria area di comfort. Quello che invece una discussione seria dovrebbe evidenziare è che, qualunque sia il giudizio storico sui motivi politici che hanno portato all'euro, rimane indubbio il fatto che si sapesse già da prima che esso avrebbe provocato le conseguenze che oggi viviamo sulla nostra pelle. Vi ricordate la profezia di Prodi? "Sono sicuro che l'euro ci obbligherà a introdurre un nuovo set di strumenti di politica economica. E' politicamente impossibile proporre ciò ora. Ma un giorno ci sarà una crisi e nuovi strumenti saranno creati" (Romano Prodi, The Wall Street Journal 31 ottobre 2001")
Comunque, se proprio volete una risposta alla vostra domanda sul perché tutto questo è stato fatto, nella stessa intervista Frank Hahn fornisce il suo parere: "Il vero motivo per sostenere i cambi fissi è, in effetti, il controllo della classe lavoratrice. Infatti, fintanto che i governi non creano un meccanismo che leghi loro le mani, non è possibile contenere l'inflazione salariale. Credo che i sostenitori del cambio fisso vogliano introdurlo solamente per la paura dell'inflazione e, poiché di questi tempi siamo nelle mani dei banchieri centrali, per i quali il grande nemico è l'inflazione più che la disoccupazione, questa scelta si spiega".
Questo blog è nato per divulgare il mio lavoro di autoinformazione che consiste nel pubblicare: dati, opinioni, e testimonianze sugli argomenti che approfondisco. Lo stile sarà sempre quello che, secondo me, distingue una sana informazione dalla propaganda, e cioè separare i fatti dalle teorie e dai giudizi. Seguitemi anche su Twitter. Wendell Gee @WendellGee1985
lunedì 6 giugno 2016
lunedì 25 aprile 2016
Draghi-Merkel e la polemica sui tassi d'interesse
E' di questi giorni la polemica tra la cancelliera tedesca, la Signora Merkel, e il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi, per il mancato aumento dei tassi d'interesse, fermi al minimo storico (qui). Immagino che alcuni di voi si saranno domandati come mai in Germania spingono per un rialzo del costo del denaro?
I lettori di questo blog sono consapevoli del fatto che la crisi economica europea è causata dal tentativo, in atto, di porre rimedio allo squilibrio macroeconomico in essere tra i vari paesi che aderiscono all'eurozona.
Nel paese più ricco, la Germania, continuano ad affluire sempre più denari, a causa del saldo fortemente attivo delle partite correnti.
Come ci ha raccontato nel 2013 il vice presidente della BCE, nel corso degli anni duemila, il surplus realizzato dall'economia tedesca non rimaneva in Germania ma, coloro i quali lo realizzavano, imprenditori e banchieri, lo investivano nei paesi periferici (quelli che una volta venivano chiamati PIIGS: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
Dallo scoppio della crisi, tuttavia, le pesanti politiche di austerità avvenute nelle suddette economie periferiche, che sono consistite in azioni volte a favorire la diminuzione dei consumi interni (quindi delle importazioni, e della domanda di capitali dall'estero), è emerso il problema, per i banchieri e gli industriali tedeschi, di investire il loro denaro a casa propria con inferiori margini di guadagno.
Quindi, oggi, in Germania abbiamo finanziamenti e mutui concessi al pubblico a tassi vicini allo zero o, addirittura, negativi.
Questo, tra l'altro, sta facendo aumentare il prezzo degli immobili aumentando il rischio di alimentare la solita bolla speculativa.
Come rimediare? Il governatore Draghi potrebbe accontentare la Signora Merkel e aumentare i tassi. Questo, però, sfavorirebbe ancora di più le economie periferiche, e le loro banche, che hanno bisogno di denaro a prezzi convenienti poter coprire le loro perdite, causate dall'austerità, e investire nuove risorse nei contesti dei paesi periferici, dove le famiglie e le imprese non si possono permettere tassi più elevati.
Mario Draghi sarà, forse, indipendente dai poteri politici ma di sicuro non può far niente per mettere tutti d'accordo. Il suo tasso d'interesse è come un vestito a taglia unica, troppo largo per i magri ma anche troppo stretto per i più robusti.
La possibile soluzione del rebus compete alla Signora Merkel ma, indipendentemente dalla sua volontà, non è detto che abbia la forza politica per attuarla. Potrebbe, infatti, favorire l'aumento degli stipendi dei lavoratori tedeschi. In questo modo, parte di quegli aumenti verrebbe consumato in prodotti d'importazione dai paesi periferici. Questo aiuterebbe il riequilibrio macroeconomico dell'eurozona, ma ridurrebbe i margini di guadagno degli imprenditori tedeschi e, inevitabilmente, comporterebbe un aumento di quella disoccupazione che, fino ad ora, la Germania ha potuto esportare nel resto d'Europa, tramite una moneta ampiamente sottovalutata per la sua economia.
Insomma, dopo quasi dieci anni di crisi, i problemi causati dalla moneta unica sono ben lontani dall'essere risolti e, piaccia o no, aumentano le possibilità che questo sistema monetario possa disgregarsi alla prossima crisi.
I lettori di questo blog sono consapevoli del fatto che la crisi economica europea è causata dal tentativo, in atto, di porre rimedio allo squilibrio macroeconomico in essere tra i vari paesi che aderiscono all'eurozona.
Nel paese più ricco, la Germania, continuano ad affluire sempre più denari, a causa del saldo fortemente attivo delle partite correnti.
Dallo scoppio della crisi, tuttavia, le pesanti politiche di austerità avvenute nelle suddette economie periferiche, che sono consistite in azioni volte a favorire la diminuzione dei consumi interni (quindi delle importazioni, e della domanda di capitali dall'estero), è emerso il problema, per i banchieri e gli industriali tedeschi, di investire il loro denaro a casa propria con inferiori margini di guadagno.
Quindi, oggi, in Germania abbiamo finanziamenti e mutui concessi al pubblico a tassi vicini allo zero o, addirittura, negativi.
Come rimediare? Il governatore Draghi potrebbe accontentare la Signora Merkel e aumentare i tassi. Questo, però, sfavorirebbe ancora di più le economie periferiche, e le loro banche, che hanno bisogno di denaro a prezzi convenienti poter coprire le loro perdite, causate dall'austerità, e investire nuove risorse nei contesti dei paesi periferici, dove le famiglie e le imprese non si possono permettere tassi più elevati.
Mario Draghi sarà, forse, indipendente dai poteri politici ma di sicuro non può far niente per mettere tutti d'accordo. Il suo tasso d'interesse è come un vestito a taglia unica, troppo largo per i magri ma anche troppo stretto per i più robusti.
La possibile soluzione del rebus compete alla Signora Merkel ma, indipendentemente dalla sua volontà, non è detto che abbia la forza politica per attuarla. Potrebbe, infatti, favorire l'aumento degli stipendi dei lavoratori tedeschi. In questo modo, parte di quegli aumenti verrebbe consumato in prodotti d'importazione dai paesi periferici. Questo aiuterebbe il riequilibrio macroeconomico dell'eurozona, ma ridurrebbe i margini di guadagno degli imprenditori tedeschi e, inevitabilmente, comporterebbe un aumento di quella disoccupazione che, fino ad ora, la Germania ha potuto esportare nel resto d'Europa, tramite una moneta ampiamente sottovalutata per la sua economia.
Insomma, dopo quasi dieci anni di crisi, i problemi causati dalla moneta unica sono ben lontani dall'essere risolti e, piaccia o no, aumentano le possibilità che questo sistema monetario possa disgregarsi alla prossima crisi.
lunedì 7 marzo 2016
Pazzi al potere
Molti di voi saranno di certo a conoscenza del disgustoso tentativo in atto in parlamento volto a facilitare l'esproprio, da parte delle banche, delle case degli inquilini morosi. Trovo fuori luogo i discorsi di coloro i quali credono di essere nel giusto, sostenendo che sia un sacrosanto diritto del creditore quello di rientrare dei soldi prestati, perché essi non capiscono quale sia, in realtà, il contesto di una simile operazione.
I proprietari debitori, sto parlando di connazionali: imprenditori, professionisti, ex impiegati e operai, che è difficile immaginare come un gruppo di furbi e avventurosi scialacquatori di risorse altrui sono, in effetti, solo persone che non riescono più a pagare, avendo perso tutto a causa della crisi.
Sono i disoccupati e i falliti causati dalle politiche di austerità che i governi italiani, su ordine della Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale), hanno approvato al solo scopo farci rimanere nell'euro, impedendoci quella naturale svalutazione di cui hanno beneficiato le economie di tanti paesi fuori dall'eurozona. E' a questi stessi disgraziati che taluni ben pensanti oggi fanno la morale. Responsabili, a loro dire, di non essere riusciti a pagare i propri debiti. Quando, in effetti, i loro creditori (le banche) sono a loro volta indebitati con altre istituzioni estere che, evidentemente, hanno un peso specifico molto elevato, se possono arrivare fino a fare approvare simili provvedimenti dal nostro parlamento. E, la colpa di questi debiti e crediti, come ben sa chi ha letto i documenti ufficiali, non le favole che racconta l'informazione mainstream, è dell'euro.
In tutta la gestione politica seguita alla crisi, i nostri governanti hanno delle responsabilità ben precise. Se c'è un comune denominatore di tutte le cosiddette "riforme" approvate dai governi di questo periodo, vedi ad esempio il Jobs Act, è quello di essere tutti provvedimenti dal lato dell'offerta. Ovvero, leggi che servono a migliorare l'efficienza della produzione di beni e servizi, che noi riusciamo a comprare sempre meno, a danno di coloro i quali quei beni e servizi li producono (che siamo sempre noi, miei cari amici). In breve, in una crisi di domanda, cioè di consumi, i nostri governanati non trovano di meglio da fare che sottoporci a pesanti misure a favore della produzione, cioè dell'offerta, nel tentativo di rendere quei beni e servizi convenienti ai residenti esteri.
Da una parte, io ho sempre interpretato questo atteggiamento come una sorta di tradimento nei confronti degli elettori, il popolo italiano. Tuttavia, forse, aveva ragione Keynes quando, in tempi non dissimili dai nostri, scriveva:
<<Le idee degli economisti e dei filosofi politci, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose al di fuori di quelle. Gli uomini della pratica, i quali si rintengono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro>>.
Questa gente è vittima delle proprie convinzioni scientifiche e, nonostante i pessimi risultati ottenuti, crede ancora alla bontà delle proprie ricette ordoliberiste, mercantiliste e monetariste. E andranno avanti fino a quando gli italiani non glielo impediranno. Addossando noi (scansa fatiche, corrotti, bamboccioni, choosy, etc. etc.) tutto il peso, e le responsabilità, della sconfitta delle loro idee. Tutto quello che hanno fatto, e che stanno facendo ancora oggi, in Grecia, proveranno a metterlo in atto anche qui da noi. Perché <<Ce lo chiede l'Europa>>, <<Non c'è alternativa>>, <<Non ci sono i soldi>> ma soprattutto, non ci sarà pietà per nessuno.
I proprietari debitori, sto parlando di connazionali: imprenditori, professionisti, ex impiegati e operai, che è difficile immaginare come un gruppo di furbi e avventurosi scialacquatori di risorse altrui sono, in effetti, solo persone che non riescono più a pagare, avendo perso tutto a causa della crisi.
Sono i disoccupati e i falliti causati dalle politiche di austerità che i governi italiani, su ordine della Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale), hanno approvato al solo scopo farci rimanere nell'euro, impedendoci quella naturale svalutazione di cui hanno beneficiato le economie di tanti paesi fuori dall'eurozona. E' a questi stessi disgraziati che taluni ben pensanti oggi fanno la morale. Responsabili, a loro dire, di non essere riusciti a pagare i propri debiti. Quando, in effetti, i loro creditori (le banche) sono a loro volta indebitati con altre istituzioni estere che, evidentemente, hanno un peso specifico molto elevato, se possono arrivare fino a fare approvare simili provvedimenti dal nostro parlamento. E, la colpa di questi debiti e crediti, come ben sa chi ha letto i documenti ufficiali, non le favole che racconta l'informazione mainstream, è dell'euro.
In tutta la gestione politica seguita alla crisi, i nostri governanti hanno delle responsabilità ben precise. Se c'è un comune denominatore di tutte le cosiddette "riforme" approvate dai governi di questo periodo, vedi ad esempio il Jobs Act, è quello di essere tutti provvedimenti dal lato dell'offerta. Ovvero, leggi che servono a migliorare l'efficienza della produzione di beni e servizi, che noi riusciamo a comprare sempre meno, a danno di coloro i quali quei beni e servizi li producono (che siamo sempre noi, miei cari amici). In breve, in una crisi di domanda, cioè di consumi, i nostri governanati non trovano di meglio da fare che sottoporci a pesanti misure a favore della produzione, cioè dell'offerta, nel tentativo di rendere quei beni e servizi convenienti ai residenti esteri.
Da una parte, io ho sempre interpretato questo atteggiamento come una sorta di tradimento nei confronti degli elettori, il popolo italiano. Tuttavia, forse, aveva ragione Keynes quando, in tempi non dissimili dai nostri, scriveva:
<<Le idee degli economisti e dei filosofi politci, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose al di fuori di quelle. Gli uomini della pratica, i quali si rintengono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro>>.
Questa gente è vittima delle proprie convinzioni scientifiche e, nonostante i pessimi risultati ottenuti, crede ancora alla bontà delle proprie ricette ordoliberiste, mercantiliste e monetariste. E andranno avanti fino a quando gli italiani non glielo impediranno. Addossando noi (scansa fatiche, corrotti, bamboccioni, choosy, etc. etc.) tutto il peso, e le responsabilità, della sconfitta delle loro idee. Tutto quello che hanno fatto, e che stanno facendo ancora oggi, in Grecia, proveranno a metterlo in atto anche qui da noi. Perché <<Ce lo chiede l'Europa>>, <<Non c'è alternativa>>, <<Non ci sono i soldi>> ma soprattutto, non ci sarà pietà per nessuno.
lunedì 8 febbraio 2016
Quelli che: "l'euro a mille lire!"
Questo post non è mio ma, dato che mi piaceva, l'ho deliberatamente "copiato" da (questo) del Prof. Bagnai. Non è il primo ne sarà il mio ultimo "plagio" anche perché, a mio avviso, l'imitazione rimane sempre la più alta forma di ammirazione.
L'annosa questione è questa: <<sarebbe convenuto all'Italia entrare nell'euro con un cambio a mille lire?>>
Ne avrete sentito parlare spesso, soprattutto ad inizio anni duemila, quando i caffè al bar (e non solo) passarono da mille lire a un euro nel giro di una notte. Cosa che, per inciso, corrisponderebbe ad un'inflazione del 100%. Tuttavia, stando ai dati, tale esplosione dei prezzi non è mai avvenuta. C'è chi ci crede e chi no. Io posso solo mostrarvi i dati, dopodiché, se avete qualcosa da ridire riferitelo a chi di dovere. Avendo, tuttavia, la cura di badare al fatto che, anche se in quel periodo il vostro costo della vita è terribilmente aumentato (caffè, aperitivi, cene al ristorante) questo non significa che la stessa sorte sia toccata al paniere di beni utilizzato per le statistiche. E, soprattutto, che un'esplosione dei prezzi della portata che voi ipotizzate avrebbe avuto un effetto non irrilevante sulle esportazioni. Ok? Se ancora vi brucia perché nel 2002 il vostro pizzaiolo vi passò la margherita da 5.000 lire a 5 euro non sfogatevi con me. Il senso di questo post è un altro.
Prima di passare all'analisi vera e propria vale solo la pena ricordare che il cambio lira/euro non fu stabilito nel 2002, al momento della circolazione dell'euro al pubblico, e neanche nel 1999, anno di nascita della moneta unica, ma nel 1996 quando furono stabiliti i cambi obiettivo di ciascuna divisa verso l'ECU (antesignano dell'euro). Di seguito, per comodità, troverete il cambio lira/ECU (e quindi lira/euro) arrotondato a 2.000 (invece che a 1.936,27).
La figura 1 è una tabellina Excel che mostra gli stipendi di due ipotetici personaggi, l'italiano Giovanni e il tedesco Hans, i loro rispettivi stipendi e il prezzo della macchina di riferimento (per la classe media) in ognuno dei due paesi. Si osservi come per entrambi (Giovanni e Hans) la Punto è la macchina più a buon mercato ma, mentre per Giovanni è una scelta non solo molto raccomandabile ma quasi obbligata (dato il prezzo della Golf), Hans può permettersi di meglio perché guadagna di più. Per questo motivo i Giovanni italiani (anche quelli senza due "n") scelgono la Punto, e la Golf rimane un sogno proibito per molti. D'altra parte, solo gli Hans più parsimoniosi si compreranno la macchina italiana, gli altri, beati loro, andranno in giro con la Golf (rigorosamente grigia metallizzata, il colore nazionale delle auto tedesche).
Nella figura 2 si mostra il passaggio all'euro con il cambio standard a duemila lire (che poi sarebbe 1.936,27). Come vedete, il cosiddetto changeover (così lo chiamano gli economisti) è neutrale, cioè non colpisce ne gli acquisti di Giovanni ne quelli di Hans (come invece succederà nel corso degli anni, man mano che l'effetto dei differenziali d'inflazione, e delle politiche di moderazione salariale in Germania, si farà sentire. Se vi sfugge il senso della cosa, leggete qui).
Infine, nella figura 3, troviamo la situazione desiderata da coloro i quali pensano (ma cambieranno subito idea) che avremmo dovuto entrare al cambio di mille lire per un euro.
Notate che, con il cambio lira/euro a mille (e quello del marco invariato), ad Hans non sarebbe cambiato nulla, mentre a Giovanni non sarebbe più venuto in mente di comprarsi la Punto, meno blasonata e per giunta più cara della Golf. Il risultato? Per compensare il calo delle vendite la fabbrica della Punto avrebbe dovuto licenziare e/o delocalizzare istantantaneamente. Insomma, sarebbe successo subito quello che è accaduto più lentamente, e solo in parte, nel corso degli anni.
C'è di più. Se oggi abbiamo problemi con una moneta, che nel corso degli anni, si presume che sia diventata (per noi) troppo forte, diciamo di circa il 20%. Pensate a cosa sarebbe successo se, nel corso di una notte, si fosse rivalutata addirittura del 100%!
lunedì 28 dicembre 2015
Le parole inglesi che impareremo nel 2016: Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD), bail-in, bank run, European Stability Mechanism (ESM)
Nel 2008, ve ne ricorderete, scoppiò una crisi finanziaria mondiale che provocò il fallimento di numerose banche. Il tutto ebbe inizio in America, a causa dell'esplosione della bolla finanziaria dei mutui sub-prime. La crisi si propagò nel resto del mondo, e quindi anche in Europa, come nel gioco del domino, mettendo in crisi tutte quelle banche che erano in qualche modo connesse agli istituti finanziari USA che non furono più in condizione di onorare i propri debiti.
Come mostra di seguito l'ABI (Associazione Bancaria Italiana) molti paesi europei ricorsero agli aiuti di stato per impedire alle loro istituzioni finanziarie di fallire. In Italia, tuttavia, questo non è successo se non in maniera molto marginale. Il totale della spesa pubblica utilizzata per il sostegno delle istituzioni finanziarie private tra il 2008 e il 2013 è stato di, appena, 8 miliardi di euro. Poca cosa, se comparato con: i 144 miliardi della Germania; i 141 miliardi del Regno Unito; o i 26 miliardi spesi dallo stato francese.
Oltre al sacrificio dei contribuenti nazionali, in Spagna, Irlanda e Grecia, sono state coinvolte anche le istituzioni dell'Unione Europea. Come osservato dal Sole24Ore nella figura seguente, che mostra il caso della Grecia, gli italiani hanno pagato un pesante contributo alla risoluzione del problema. Si osservi che, nonostante le nostre banche non avessero delle esposizioni rilevanti verso quelle elleniche (solo € 6,82 miliardi nel 2009) noi abbiamo, generosamente, contribuito con una bella fetta delle risorse necessarie al loro salvataggio (barra di colore arancione: Italia € 40,87 miliardi). Al contrario, a dicembre 2009 le banche francesi e quelle tedesche, proprio quelle che erano già state ampiamente foraggiate dai rispettivi governi, avevano una forte esposizione verso gli istituti finanziari di Atene (barre di colore blu: Francia € 78,82 miliardi, Germania € 45 miliardi). A settembre del 2014, però, gran parte di quei crediti erano stati saldati tramite gli euro versati dai contribuenti europei mediante cosiddetto fondo salva stati che, visto com'è andata a finire, sarebbe stato meglio nominare fondo salva banche francesi e tedesche. Infatti, di quelle somme lo stato greco non ha visto nemmeno l'ombra.
Oggi, in Italia, dopo 5 anni di politiche d'austerità che hanno aggravato la crisi, fatto peggiorare il debito pubblico ed esplodere la disoccupazione (il tutto nel tentativo di mettere a posto i nostri conti con l'estero) le banche del Bel Paese hanno accumulato delle ingenti sofferenze bancarie, sia verso coloro i quali, perdendo il proprio impiego, non sono stati più in grado di pagare le rate del finanziamento contratto (o del mutuo), sia verso quelle imprese che, a causa del crollo del fatturato (dovuto alla diminuzione dei consumi interni), quando non hanno chiuso, si sono indebitate sempre di più. Una semplice occhiata alle seguenti figure vi darà la misura della questione.
Si noti come il problema, scoppiato a causa della crisi nel 2008, abbia continuato ad aggravarsi negli anni successivi a causa del cosiddetto sudden stop, cioè quello che gli economisti chiamano il blocco degli investimenti da parte delle banche creditrici del sistema dell'Eurozona (quelle del nord Europa) verso quelle debitrici (del sud). La dinamica, per chi la volesse approfondire, è stata chiarita dal vice presidente della BCE nel suo noto discorso di maggio 2013 ad Atene (di cui mi sono occupato, per la prima volta, qui).
Apro una parentesi sul decreto "Salva Banche" con il quale il governo ha regolamentato l'annosa questione della Banca Popolare d'Etruria e delle altre istituzioni finanziarie entrate recentemente in crisi. Indipendentemente dal fatto che, nei casi in questione, la Commissione Europea ci abbia, o meno, impedito di utilizzare fondi pubblici per il risanamento di quegli istituti (il caso è materia di discussione e non voglio perderci tempo) è chiaro che l'approccio voluto dall'Europa a partire dal primo gennaio 2016 sarà quello previsto dalla procedura definita come Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD).
La questione veramente importante per il Paese non è tanto la mala gestio, o persino la rilevanza penale del comportamento di alcuni soggetti implicati nel dissesto di alcune piccole banche locali (il nome più altisonante è il padre del ministro Boschi) ma il fatto che, se la crisi si dovesse estendere ad altri istituti, a noi italiani non verrà concesso, a differenza di quanto avvenuto per altri, di salvare dal fallimento, mediante l'utilizzo di fondi pubblici, le banche che si dovessero trovare in difficoltà. Il BRRD prevede che il risanamento avvenga tramite il cosiddetto bail-in, ovvero abbattendo il capitale (e quindi le azioni dei soci), non pagando gli obbligazionisti, e prelevando le risorse necessarie direttamente dai clienti, fatta eccezione per il fondo di garanzia europeo sui conti correnti sotto i centomila euro (che però, attualmente, è una garanzia solo al livello teorico).
Se poi il BRRD dovesse causare una perdita di fiducia nel sistema creditizio da parte dei risparmiatori, tale da provocare una corsa agli sportelli (bank run, in inglese) allora il nostro governo si vedrà costretto a chiedere l'intervento del Meccanismo di Stabilità Europeo (European Stability Mechanism o ESM) che prevede la gentile concessione, dietro il pagamento di un congruo interesse, di prestiti vincolati ad un programma di riforme politiche che è esattamente quello che è successo in Grecia o in Spagna, dove le banche sono state salvate e il tasso di disoccupazione è il doppio del nostro.
Presto, il governo italiano potrebbe essere costretto a decidere se applicare le regole europee, e quindi risanare i bilanci delle banche con i nostri soldi e/o con quelli chiesi a prestito dall'Europa, oppure rigettare i trattati BRRD e ESM e, che vi piaccia o no, ricapitalizzare il sistema finanziario in lire.
Come mostra di seguito l'ABI (Associazione Bancaria Italiana) molti paesi europei ricorsero agli aiuti di stato per impedire alle loro istituzioni finanziarie di fallire. In Italia, tuttavia, questo non è successo se non in maniera molto marginale. Il totale della spesa pubblica utilizzata per il sostegno delle istituzioni finanziarie private tra il 2008 e il 2013 è stato di, appena, 8 miliardi di euro. Poca cosa, se comparato con: i 144 miliardi della Germania; i 141 miliardi del Regno Unito; o i 26 miliardi spesi dallo stato francese.
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Fonte: ABI (Situazione del settore bancario italiano 9 dicembre 2015 pagina 18) |
Oltre al sacrificio dei contribuenti nazionali, in Spagna, Irlanda e Grecia, sono state coinvolte anche le istituzioni dell'Unione Europea. Come osservato dal Sole24Ore nella figura seguente, che mostra il caso della Grecia, gli italiani hanno pagato un pesante contributo alla risoluzione del problema. Si osservi che, nonostante le nostre banche non avessero delle esposizioni rilevanti verso quelle elleniche (solo € 6,82 miliardi nel 2009) noi abbiamo, generosamente, contribuito con una bella fetta delle risorse necessarie al loro salvataggio (barra di colore arancione: Italia € 40,87 miliardi). Al contrario, a dicembre 2009 le banche francesi e quelle tedesche, proprio quelle che erano già state ampiamente foraggiate dai rispettivi governi, avevano una forte esposizione verso gli istituti finanziari di Atene (barre di colore blu: Francia € 78,82 miliardi, Germania € 45 miliardi). A settembre del 2014, però, gran parte di quei crediti erano stati saldati tramite gli euro versati dai contribuenti europei mediante cosiddetto fondo salva stati che, visto com'è andata a finire, sarebbe stato meglio nominare fondo salva banche francesi e tedesche. Infatti, di quelle somme lo stato greco non ha visto nemmeno l'ombra.
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Fonte: Info Data Blog Sole24ore |
Oggi, in Italia, dopo 5 anni di politiche d'austerità che hanno aggravato la crisi, fatto peggiorare il debito pubblico ed esplodere la disoccupazione (il tutto nel tentativo di mettere a posto i nostri conti con l'estero) le banche del Bel Paese hanno accumulato delle ingenti sofferenze bancarie, sia verso coloro i quali, perdendo il proprio impiego, non sono stati più in grado di pagare le rate del finanziamento contratto (o del mutuo), sia verso quelle imprese che, a causa del crollo del fatturato (dovuto alla diminuzione dei consumi interni), quando non hanno chiuso, si sono indebitate sempre di più. Una semplice occhiata alle seguenti figure vi darà la misura della questione.
Apro una parentesi sul decreto "Salva Banche" con il quale il governo ha regolamentato l'annosa questione della Banca Popolare d'Etruria e delle altre istituzioni finanziarie entrate recentemente in crisi. Indipendentemente dal fatto che, nei casi in questione, la Commissione Europea ci abbia, o meno, impedito di utilizzare fondi pubblici per il risanamento di quegli istituti (il caso è materia di discussione e non voglio perderci tempo) è chiaro che l'approccio voluto dall'Europa a partire dal primo gennaio 2016 sarà quello previsto dalla procedura definita come Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD).
La questione veramente importante per il Paese non è tanto la mala gestio, o persino la rilevanza penale del comportamento di alcuni soggetti implicati nel dissesto di alcune piccole banche locali (il nome più altisonante è il padre del ministro Boschi) ma il fatto che, se la crisi si dovesse estendere ad altri istituti, a noi italiani non verrà concesso, a differenza di quanto avvenuto per altri, di salvare dal fallimento, mediante l'utilizzo di fondi pubblici, le banche che si dovessero trovare in difficoltà. Il BRRD prevede che il risanamento avvenga tramite il cosiddetto bail-in, ovvero abbattendo il capitale (e quindi le azioni dei soci), non pagando gli obbligazionisti, e prelevando le risorse necessarie direttamente dai clienti, fatta eccezione per il fondo di garanzia europeo sui conti correnti sotto i centomila euro (che però, attualmente, è una garanzia solo al livello teorico).
Se poi il BRRD dovesse causare una perdita di fiducia nel sistema creditizio da parte dei risparmiatori, tale da provocare una corsa agli sportelli (bank run, in inglese) allora il nostro governo si vedrà costretto a chiedere l'intervento del Meccanismo di Stabilità Europeo (European Stability Mechanism o ESM) che prevede la gentile concessione, dietro il pagamento di un congruo interesse, di prestiti vincolati ad un programma di riforme politiche che è esattamente quello che è successo in Grecia o in Spagna, dove le banche sono state salvate e il tasso di disoccupazione è il doppio del nostro.
Presto, il governo italiano potrebbe essere costretto a decidere se applicare le regole europee, e quindi risanare i bilanci delle banche con i nostri soldi e/o con quelli chiesi a prestito dall'Europa, oppure rigettare i trattati BRRD e ESM e, che vi piaccia o no, ricapitalizzare il sistema finanziario in lire.
lunedì 14 dicembre 2015
L'austerità e il terrorismo portarono Hitler al potere (speriamo che la storia non si ripeta) 2 di 2
Nel post precedente (che vi raccomando di leggere qui) ho brevemente descritto le condizioni economiche in cui si trovava la Germania al tempo in cui Hitler arrivò al potere, identificando nelle politiche di austerità, e nella conseguente disoccupazione, la causa principale della sua ascesa. Di seguito vorrei descrivervi i motivi per cui quel periodo del passato presenta diverse, inquietanti, analogie con il nostro presente.
Infatti, Maastricht e l'euro sono oggi quello che il trattato di Versailles rappresentò per la Germania negli anni tra tra le due guerre mondiali. Come quest'ultima che, per ripagare le riparazioni di guerra e bloccare l'iperinflazione del 1922-23, ebbe bisogno dei dollari provenienti dagli USA, anche le economie dei paesi europei più in crisi hanno basato la loro crescita degli anni duemila (nel caso dell'Italia piuttosto modesta) sui capitali esteri. In questo caso si è trattato degli euro provenienti dalle banche dell'Europa del nord (Germania e Francia in testa). Chi di voi legge dalla sua nascita questo blog si ricorderà, senza dubbio, il grafico che mostra l'impennata del debito privato in Italia, e anche la figura successiva, preparata dal vice presidente della Banca Centrale Europea, dove viene illustrata la crescita dell'esposizione delle banche dei paesi più duramente colpiti dalla crisi, verso gli istituti finanziari delle nazioni europee creditrici, avvenuta a partire dalla nascita dell'eurozona.
Come la grande depressione bloccò l'afflusso di dollari americani verso la Germania, così le conseguenze della grande recessione americana del 2007 hanno provocato la fine degli investimenti intraeuropei che avevano reso possibile, nelle nazioni dell'Europa periferica, dei tassi d'interesse paragonabili a quelli delle più avanzate economie del centro e del nord. Il sudden stop (così viene chiamato dagli economisti) è il punto preciso del grafico precedente in cui la crescita del debito privato in Italia si arresta. E' da allora che ci sentiamo dire che sono finiti i soldi. La stessa cosa è avvenuta anche negli altri paesi più duramente colpiti dalla crisi (come, ad esempio, la Grecia e la Spagna).
Il governo di Mario Monti, e quelli delle altre nazioni europee colpite dalla crisi, hanno perseguito le stesse politiche di austerità che furono utilizzate anche da Brüning, in Germania, tra il 1930 e il 1932, causando peraltro la stessa brusca caduta del PIL e una drammatica disoccupazione.
C'è tuttavia una differenza tra i due periodi. In Germania, quell'epoca si concluse con l'avvento del nazismo e la fine della democrazia, mentre oggi la situazione europea sembra assai differente dal punto di vista politico. Tuttavia, forse, oggi il pericolo maggiore per la democrazia non arriva dalle forze politiche che avanzano (i cosiddetti partiti populisti) ma dai governi stessi.
Il punto di svolta per il partito nazista fu il rogo del parlamento di Berlino, il 27 febbraio del 1933, per cui i nazisti accusarono i comunisti (non esistevano ancora Bin Laden o l'Isis). A quell'attentato terroristico Hitler reagì con un decreto d'urgenza "per la protezione del popolo e dello stato" che di fatto sospendeva la costituzione e soppresse la democrazia.
Oggi, la corsa verso il totalitarismo non appare altrettanto rapida come quella che portò i nazisti al potere in Germania. Tuttavia, non può passare inosservato il fatto che: attentato dopo attentato, crisi dopo crisi, emergenza dopo emergenza, si moltiplicano in tutta Europa le leggi che limitano i diritti dei lavoratori (in nome della produttività), diminuiscono il potere dell'opposizione in parlamento (in nome della governabilità), mettono sotto controllo internet e gli altri sistemi di comunicazione (in nome della sicurezza).
Concludo con le dichiarazioni di un gerarca nazista, Hermann Goering, che sarebbe meglio tenere sempre a mente:
«È ovvio che la gente non vuole la guerra. Perché mai un povero contadino dovrebbe voler rischiare la pelle in guerra, quando il vantaggio maggiore che può trarne è quello di tornare a casa tutto intero? Certo, la gente comune non vuole la guerra: né in Russia, né in Inghilterra e neanche in Germania. È scontato. Ma, dopo tutto, sono i capi che decidono la politica dei vari Stati e, sia che si tratti di democrazie, di dittature fasciste, di parlamenti o di dittature comuniste, è sempre facile trascinarsi dietro il popolo. Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre assoggettato al volere dei potenti. È facile. Basta dirgli che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di essere privi di spirito patriottico e di voler esporre il proprio paese al pericolo. Funziona sempre, in qualsiasi paese.»
Infatti, Maastricht e l'euro sono oggi quello che il trattato di Versailles rappresentò per la Germania negli anni tra tra le due guerre mondiali. Come quest'ultima che, per ripagare le riparazioni di guerra e bloccare l'iperinflazione del 1922-23, ebbe bisogno dei dollari provenienti dagli USA, anche le economie dei paesi europei più in crisi hanno basato la loro crescita degli anni duemila (nel caso dell'Italia piuttosto modesta) sui capitali esteri. In questo caso si è trattato degli euro provenienti dalle banche dell'Europa del nord (Germania e Francia in testa). Chi di voi legge dalla sua nascita questo blog si ricorderà, senza dubbio, il grafico che mostra l'impennata del debito privato in Italia, e anche la figura successiva, preparata dal vice presidente della Banca Centrale Europea, dove viene illustrata la crescita dell'esposizione delle banche dei paesi più duramente colpiti dalla crisi, verso gli istituti finanziari delle nazioni europee creditrici, avvenuta a partire dalla nascita dell'eurozona.
Come la grande depressione bloccò l'afflusso di dollari americani verso la Germania, così le conseguenze della grande recessione americana del 2007 hanno provocato la fine degli investimenti intraeuropei che avevano reso possibile, nelle nazioni dell'Europa periferica, dei tassi d'interesse paragonabili a quelli delle più avanzate economie del centro e del nord. Il sudden stop (così viene chiamato dagli economisti) è il punto preciso del grafico precedente in cui la crescita del debito privato in Italia si arresta. E' da allora che ci sentiamo dire che sono finiti i soldi. La stessa cosa è avvenuta anche negli altri paesi più duramente colpiti dalla crisi (come, ad esempio, la Grecia e la Spagna).
Il governo di Mario Monti, e quelli delle altre nazioni europee colpite dalla crisi, hanno perseguito le stesse politiche di austerità che furono utilizzate anche da Brüning, in Germania, tra il 1930 e il 1932, causando peraltro la stessa brusca caduta del PIL e una drammatica disoccupazione.
C'è tuttavia una differenza tra i due periodi. In Germania, quell'epoca si concluse con l'avvento del nazismo e la fine della democrazia, mentre oggi la situazione europea sembra assai differente dal punto di vista politico. Tuttavia, forse, oggi il pericolo maggiore per la democrazia non arriva dalle forze politiche che avanzano (i cosiddetti partiti populisti) ma dai governi stessi.
Il punto di svolta per il partito nazista fu il rogo del parlamento di Berlino, il 27 febbraio del 1933, per cui i nazisti accusarono i comunisti (non esistevano ancora Bin Laden o l'Isis). A quell'attentato terroristico Hitler reagì con un decreto d'urgenza "per la protezione del popolo e dello stato" che di fatto sospendeva la costituzione e soppresse la democrazia.
Oggi, la corsa verso il totalitarismo non appare altrettanto rapida come quella che portò i nazisti al potere in Germania. Tuttavia, non può passare inosservato il fatto che: attentato dopo attentato, crisi dopo crisi, emergenza dopo emergenza, si moltiplicano in tutta Europa le leggi che limitano i diritti dei lavoratori (in nome della produttività), diminuiscono il potere dell'opposizione in parlamento (in nome della governabilità), mettono sotto controllo internet e gli altri sistemi di comunicazione (in nome della sicurezza).
Concludo con le dichiarazioni di un gerarca nazista, Hermann Goering, che sarebbe meglio tenere sempre a mente:
«È ovvio che la gente non vuole la guerra. Perché mai un povero contadino dovrebbe voler rischiare la pelle in guerra, quando il vantaggio maggiore che può trarne è quello di tornare a casa tutto intero? Certo, la gente comune non vuole la guerra: né in Russia, né in Inghilterra e neanche in Germania. È scontato. Ma, dopo tutto, sono i capi che decidono la politica dei vari Stati e, sia che si tratti di democrazie, di dittature fasciste, di parlamenti o di dittature comuniste, è sempre facile trascinarsi dietro il popolo. Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre assoggettato al volere dei potenti. È facile. Basta dirgli che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di essere privi di spirito patriottico e di voler esporre il proprio paese al pericolo. Funziona sempre, in qualsiasi paese.»
lunedì 7 dicembre 2015
L'austerità e il terrorismo portarono Hitler al potere (speriamo che la storia non si ripeta) 1 di 2
L'argomento di questo post è importante, e merita un certo approfondimento, tanto che per renderlo di più facile lettura l'ho diviso in due parti. La seconda puntata la leggerete settimana prossima.
E' stato scritto tanto a proposito di Hitler, dell'economia europea fra le due guerre, e dell'inflazione degli anni venti. Io non potrei mai essere all'altezza di aggiungere altro rispetto a quanto già raccontato da illustri storici ed economisti. Il mio scopo, infatti, si limita a quello di farvi notare come i consensi che portarono Hitler al potere in Germania maturarono dalle politiche di austerità messe in atto dal governo tedesco, dopo la grande depressione del 1929, e che tale situazione presenta alcune significative analogie con quella attuale. Insomma, la storia si ripete ma ogni volta sembra sempre diversa (ma solo per chi non la conosce).
Partiamo dal fatto che dopo la prima guerra mondiale, persa dalla Germania, il trattato di pace di Versailles impose ai tedeschi l'onere di pagare delle pesantissime riparazioni. Il motivo principale di questo trattamento fu l'insistenza del governo francese. Keynes, nella sua celebre opera "Le conseguenze economiche della pace", descrive il primo ministro Clemenceau come un politico convinto del fatto che il conflitto appena terminato fosse solo uno dei tanti contro la Germania, e che in futuro ce ne sarebbero stati altri. In quest'ottica, il suo scopo doveva pertanto essere quello di indebolire il nemico il più possibile, per dare un vantaggio competitivo al suo paese allo scoppio della prossima guerra. Da questo atteggiamento, ne scaturì un accordo oltremodo punitivo che difficilmente avrebbe potuto essere rispettato dai tedeschi.
La conseguenza di quella pace cartaginese (come la definì il Keynes) fu l'iperinflazione tedesca degli anni venti del novecento. E' necessario che vi precisi, ma senza entrare nel dettaglio, che gli storici sono divisi sul motivo tecnico che causò tale fenomeno. Come ricordato dal Prof. Charles Kindleberger in "I primi del mondo", la scuola monetarista sostenne che l'esplosione dei prezzi fu innescata dall'eccessiva stampa di moneta da parte della banca centrale tedesca, mentre per la scuola strutturalista il motivo sarebbe stato la difficoltà di ripartire gli oneri dei sacrifici per il pagamento delle riparazioni di guerra tra le classi sociali. Se ho capito bene, secondo quest'ultima scuola di pensiero il governo avrebbe dovuto aumentare la produttività delle fabbriche tedesche allungando la giornata lavorativa. Inoltre, avrebbe dovuto eseguire una politica di austerità per diminuire i consumi interni, proteggendo così il valore della moneta. Comunque, indipendentemente dalla possibilità, o dalla volontà, del governo tedesco di adempiere al trattato di Versailles senza provocare l'iperinflazione, è opinione ampiamente condivisa che quell'accordo di pace fu l'origine del problema.
Riguardo alle conseguenze dell'inflazione, lo storico Eric Hobsbawn, Nel best seller "Il secolo breve" racconta che la moneta perse completamente il suo valore, riducendo sul lastrico le persone che vivevano di rendite fisse o di risparmi. Da quel momento l'economia della Germania dipese dagli investimenti in valuta estera. Tali afflussi di denaro arrivarono dagli USA, a partire dal 1924, con il piano Dawes.
Gli anni successivi all'iperinflazione (che durò dal 1922 al novembre 1923) beneficiarono di una certa stabilità dei prezzi, di una disoccupazione sotto controllo, e anche di una certa crescita economica. In ogni caso, non furono rose e fiori. Io ho trovato dei dati non proprio confrontabili, e forse anche contrastanti, in quanto Hobsbawn scrive che in quel periodo la disoccupazione media in Germania era del 10%, mentre Wikipedia, nella sezione che si occupa della repubblica di Weimar riporta un grafico dove è indicato che la disoccupazione nel 1928 era ben al di sotto del 10%.
In ogni caso, e qui veniamo al punto che ci interessa particolarmente, come riportato da Marcello Flores nel suo libro "Storia Universale XX Secolo" il partito nazista raggiunse solo il 2,6% dei voti alle elezioni del 1928, nonostante l'inflazione del 1922-23, e la conseguente distruzione del risparmio.
Poi venne il crollo di Wall Street del 1929 e la grande depressione dei primi anni trenta. Per ovvi motivi (i soldi erano finiti) si bloccarono i flussi di capitali che arrivavano in Germania dagli USA e, come già accennato, proprio da quelle risorse la Germania dipendeva finanziariamente. Il governo del cancelliere Brüning passò alla storia per le misure di austerità draconiane che impose ai suoi concittadini (fu una specie di Monti ante litteram) e questo fece impennare il numero dei disoccupati che, tra il 1930 e il 1932 raddoppiò. Il dato è confermato sia da Marcello Flores che da Wikipedia, così come entrambe le fonti concordano sui dati elettorali che videro, solo a partire da allora, la escalation dei consensi del partito di Hitler: 18% nel 1930 e 37% nelle elezioni di luglio del 1932.
Secondo lo storico Eric Hobsbawn, tuttavia, fu la distruzione del risparmio causata dall'inflazione a spianare la strada al fascismo in Europa. Va ribadito che questa conclusione non sembra essere suffragata dai fatti. Si può tuttavia ipotizzare che Hobsbawn intendesse che le conseguenze dell'inflazione costrinsero i governi degli anni trenta ad imporre l'austerità per mancanza di risorse, cosa che poi ebbe l'effetto di provocare l'avanzata del nazismo in Germania. Comunque, anche concordando con quest'interpretazione, è bene sottolineare che la causa dell'inflazione fu, in origine, il trattato di pace di Versailles, a cui pertanto andrebbero ricondotte tutte le sciagure successive.
Sotto troverete alcuni estratti dei libri che ho consultato per scrivere questo breve articoletto. Mi sembrava utile, ed interessante, riportarveli. Non vi annoio ulteriormente, e lascio alla prossima settimana il confronto tra gli anni venti e la nostra epoca. Anche se, molti di voi avranno già capito dove voglio arrivare.
Fonti:
John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace: Se noi contrastiamo passo per passo ogni mezzo per il quale la Germania o la Russia possono riconquistare il loro benessere materiale, solo perché nutriamo un odio nazionale di razza o politico per le loro popolazioni o per i loro governi dobbiamo anche prepararci a fronteggiare le conseguenze di tale sentimento. [...]. La politica di ridurre la Germania in uno stato di servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani, e di privare di ogni benessere un'intera nazione dovrebbe essere aborrita e detestata anche se fosse possibile attuarla, anche se ci si dovesse arricchire, anche se essa non spargesse il seme della decadenza di tutta la vita civile dell'Europa.
John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace: nonostante l'esito vittorioso per essa della lotta presente (con l'aiuto, questa volta, dell'Inghilterra e dell'America), la posizione futura della Francia rimaneva precaria agli occhi di un uomo [Clemenceau] il quale partiva dall'assunto che la guerra civile europea è da considerarsi uno stato di cose normale o almeno ricorrente in futuro, e che conflitti tra grandi potenze analighi a quelli che hanno occupato l'ultimo secolo impegneranno anche il prossimo. Secondo tale visione del futuro, la storia europea è destinata a essere una perpetuo incontro di boxe, del quale la Francia ha vinto questo round, ma del quale questo round non è cetamente l'ultimo. Da questa convinzione che in sostanza il vecchio ordine non cambierà, essendo fondato sulla natura umana che è sempre la stessa, e dal conseguente scetticismo dalla Società delle Nazioni, la politica della Francia e di Clemenceau derivava logicamente: una pace di magnaminità o di trattamento equo e paritario, basato su una "ideologia" come quella dei Quattoridici Punti di Wilson, poteva avere soltanto l'effetto di accorciare i tempi della ripresa tedesca e di affrettare il giorno in cui la Germmania scaglierà di nuovo contro la Francia il peso della sua superiorità numerica e delle sue maggiori risorse e capacità tecnica.
Charles P. Kindleberger, I primi del mondo. Come nasce e come muore l'egemonia delle grandi potenze, IX. La Germania, la ritardataria, 11. Il periodo tra le due guerre: migliaia di pagine sono state scritte sull'inflazione, pagine ricche di grandi intuizioni e notevoli sottigliezze, ma il problema, mi pare riguarda il quesito se la società tedesca all'indomani della guerra fosse capace di sostenere i rilevanti oneri della ricostruzione e delle riparazioni, oneri sopportabili solo costruendo una coesione sociale che avrebbe permesso di distribuitrli. Le riparazioni fissate dopo Versailles erano ingenti; molto più ragionevole era l'ipotesi di Keynes, secondo cui una cifra come 10 miliardi di dollari sarebbe stata sopportabile, diversamente dai 40 miliardi di dollari che aveva calcolato come implicitamente imposti dal trattato di Versailles, o i 33 miliardi più le tasse sulle esportazioni (da ripagare nel corso di 42 anni) concordati dalla Commissione per le riparazioni nell'aprile del 1921. La questione era se ci fosse o meno la volontà di pagare. La scuola monetarista sostiene che l'inflazione tedesca dipese dall'eccessiva emissione di marchi da parte dela Reichsbank, mentre la strutturalista sostiene che dipese dall'incapacità dei vari segmenti dell'economia di distribuire gli oneri.
Eric J. Hobsbawn, Il secolo breve 1914/1991, l'età della catastrofe - nell'abisso economico: Nel caso estremo la Germania del 1923, l'unità monetaria perse di un milione di milioni il valore che aveva nel 1913, cioè a dire il valore della moneta si ridusse in pratica a zero. [...]. In breve, il risparmio privato scomparve completamente, creando così un vuoto quasi completo di capitali da investire in attività produttiva, il che spiega in grande misura il fatto che l'economia tedesca negli anni successivi alla guerra dovesse affidarsi in misura massiccia ai prestiti esteri. Questo la rese insolitamente vulnerabile allorché iniziò la crisi. [...]. Quando nel 1922-23 la grande inflazione finì, essenzialmente per la decisione dei governi di bloccare la stampa di carta moneta in quantità illimitate e di cambiare valuta, le persone in Germania che vivevano di risparmi o di redditi fissi si trovarono sul lastrico. [...]. Ci si può facilmente immaginare l'effetto traumatico di un'esperienza simile sulle classi medie e medio-basse. Essa rese l'Europa pronta per l'avvento del fascismo.
Marcello Flores, Storia universale - Il XX Secolo (allegato al Corriere della Sera), pag.257: I disoccupati, che nel 1930 sono già tre milioni, nel 1932 raggiungono i sei milioni. Il rapporto diretto che esiste tra crisi economica e l'ascesa del partito nazista emerge dai risultati elettorali. Nel 1928 la NSDAP ha appena il 2,6% dei voti, che salgono a 18,3% nel settembre 1930 (con sei milioni e mezzo di elettori) e raggiungono nel luglio 1932 il 37,4% dei consensi.
E' stato scritto tanto a proposito di Hitler, dell'economia europea fra le due guerre, e dell'inflazione degli anni venti. Io non potrei mai essere all'altezza di aggiungere altro rispetto a quanto già raccontato da illustri storici ed economisti. Il mio scopo, infatti, si limita a quello di farvi notare come i consensi che portarono Hitler al potere in Germania maturarono dalle politiche di austerità messe in atto dal governo tedesco, dopo la grande depressione del 1929, e che tale situazione presenta alcune significative analogie con quella attuale. Insomma, la storia si ripete ma ogni volta sembra sempre diversa (ma solo per chi non la conosce).
Partiamo dal fatto che dopo la prima guerra mondiale, persa dalla Germania, il trattato di pace di Versailles impose ai tedeschi l'onere di pagare delle pesantissime riparazioni. Il motivo principale di questo trattamento fu l'insistenza del governo francese. Keynes, nella sua celebre opera "Le conseguenze economiche della pace", descrive il primo ministro Clemenceau come un politico convinto del fatto che il conflitto appena terminato fosse solo uno dei tanti contro la Germania, e che in futuro ce ne sarebbero stati altri. In quest'ottica, il suo scopo doveva pertanto essere quello di indebolire il nemico il più possibile, per dare un vantaggio competitivo al suo paese allo scoppio della prossima guerra. Da questo atteggiamento, ne scaturì un accordo oltremodo punitivo che difficilmente avrebbe potuto essere rispettato dai tedeschi.
La conseguenza di quella pace cartaginese (come la definì il Keynes) fu l'iperinflazione tedesca degli anni venti del novecento. E' necessario che vi precisi, ma senza entrare nel dettaglio, che gli storici sono divisi sul motivo tecnico che causò tale fenomeno. Come ricordato dal Prof. Charles Kindleberger in "I primi del mondo", la scuola monetarista sostenne che l'esplosione dei prezzi fu innescata dall'eccessiva stampa di moneta da parte della banca centrale tedesca, mentre per la scuola strutturalista il motivo sarebbe stato la difficoltà di ripartire gli oneri dei sacrifici per il pagamento delle riparazioni di guerra tra le classi sociali. Se ho capito bene, secondo quest'ultima scuola di pensiero il governo avrebbe dovuto aumentare la produttività delle fabbriche tedesche allungando la giornata lavorativa. Inoltre, avrebbe dovuto eseguire una politica di austerità per diminuire i consumi interni, proteggendo così il valore della moneta. Comunque, indipendentemente dalla possibilità, o dalla volontà, del governo tedesco di adempiere al trattato di Versailles senza provocare l'iperinflazione, è opinione ampiamente condivisa che quell'accordo di pace fu l'origine del problema.
Riguardo alle conseguenze dell'inflazione, lo storico Eric Hobsbawn, Nel best seller "Il secolo breve" racconta che la moneta perse completamente il suo valore, riducendo sul lastrico le persone che vivevano di rendite fisse o di risparmi. Da quel momento l'economia della Germania dipese dagli investimenti in valuta estera. Tali afflussi di denaro arrivarono dagli USA, a partire dal 1924, con il piano Dawes.
Gli anni successivi all'iperinflazione (che durò dal 1922 al novembre 1923) beneficiarono di una certa stabilità dei prezzi, di una disoccupazione sotto controllo, e anche di una certa crescita economica. In ogni caso, non furono rose e fiori. Io ho trovato dei dati non proprio confrontabili, e forse anche contrastanti, in quanto Hobsbawn scrive che in quel periodo la disoccupazione media in Germania era del 10%, mentre Wikipedia, nella sezione che si occupa della repubblica di Weimar riporta un grafico dove è indicato che la disoccupazione nel 1928 era ben al di sotto del 10%.
In ogni caso, e qui veniamo al punto che ci interessa particolarmente, come riportato da Marcello Flores nel suo libro "Storia Universale XX Secolo" il partito nazista raggiunse solo il 2,6% dei voti alle elezioni del 1928, nonostante l'inflazione del 1922-23, e la conseguente distruzione del risparmio.
Poi venne il crollo di Wall Street del 1929 e la grande depressione dei primi anni trenta. Per ovvi motivi (i soldi erano finiti) si bloccarono i flussi di capitali che arrivavano in Germania dagli USA e, come già accennato, proprio da quelle risorse la Germania dipendeva finanziariamente. Il governo del cancelliere Brüning passò alla storia per le misure di austerità draconiane che impose ai suoi concittadini (fu una specie di Monti ante litteram) e questo fece impennare il numero dei disoccupati che, tra il 1930 e il 1932 raddoppiò. Il dato è confermato sia da Marcello Flores che da Wikipedia, così come entrambe le fonti concordano sui dati elettorali che videro, solo a partire da allora, la escalation dei consensi del partito di Hitler: 18% nel 1930 e 37% nelle elezioni di luglio del 1932.
Secondo lo storico Eric Hobsbawn, tuttavia, fu la distruzione del risparmio causata dall'inflazione a spianare la strada al fascismo in Europa. Va ribadito che questa conclusione non sembra essere suffragata dai fatti. Si può tuttavia ipotizzare che Hobsbawn intendesse che le conseguenze dell'inflazione costrinsero i governi degli anni trenta ad imporre l'austerità per mancanza di risorse, cosa che poi ebbe l'effetto di provocare l'avanzata del nazismo in Germania. Comunque, anche concordando con quest'interpretazione, è bene sottolineare che la causa dell'inflazione fu, in origine, il trattato di pace di Versailles, a cui pertanto andrebbero ricondotte tutte le sciagure successive.
Sotto troverete alcuni estratti dei libri che ho consultato per scrivere questo breve articoletto. Mi sembrava utile, ed interessante, riportarveli. Non vi annoio ulteriormente, e lascio alla prossima settimana il confronto tra gli anni venti e la nostra epoca. Anche se, molti di voi avranno già capito dove voglio arrivare.
Fonti:
John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace: Se noi contrastiamo passo per passo ogni mezzo per il quale la Germania o la Russia possono riconquistare il loro benessere materiale, solo perché nutriamo un odio nazionale di razza o politico per le loro popolazioni o per i loro governi dobbiamo anche prepararci a fronteggiare le conseguenze di tale sentimento. [...]. La politica di ridurre la Germania in uno stato di servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani, e di privare di ogni benessere un'intera nazione dovrebbe essere aborrita e detestata anche se fosse possibile attuarla, anche se ci si dovesse arricchire, anche se essa non spargesse il seme della decadenza di tutta la vita civile dell'Europa.
John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace: nonostante l'esito vittorioso per essa della lotta presente (con l'aiuto, questa volta, dell'Inghilterra e dell'America), la posizione futura della Francia rimaneva precaria agli occhi di un uomo [Clemenceau] il quale partiva dall'assunto che la guerra civile europea è da considerarsi uno stato di cose normale o almeno ricorrente in futuro, e che conflitti tra grandi potenze analighi a quelli che hanno occupato l'ultimo secolo impegneranno anche il prossimo. Secondo tale visione del futuro, la storia europea è destinata a essere una perpetuo incontro di boxe, del quale la Francia ha vinto questo round, ma del quale questo round non è cetamente l'ultimo. Da questa convinzione che in sostanza il vecchio ordine non cambierà, essendo fondato sulla natura umana che è sempre la stessa, e dal conseguente scetticismo dalla Società delle Nazioni, la politica della Francia e di Clemenceau derivava logicamente: una pace di magnaminità o di trattamento equo e paritario, basato su una "ideologia" come quella dei Quattoridici Punti di Wilson, poteva avere soltanto l'effetto di accorciare i tempi della ripresa tedesca e di affrettare il giorno in cui la Germmania scaglierà di nuovo contro la Francia il peso della sua superiorità numerica e delle sue maggiori risorse e capacità tecnica.
Charles P. Kindleberger, I primi del mondo. Come nasce e come muore l'egemonia delle grandi potenze, IX. La Germania, la ritardataria, 11. Il periodo tra le due guerre: migliaia di pagine sono state scritte sull'inflazione, pagine ricche di grandi intuizioni e notevoli sottigliezze, ma il problema, mi pare riguarda il quesito se la società tedesca all'indomani della guerra fosse capace di sostenere i rilevanti oneri della ricostruzione e delle riparazioni, oneri sopportabili solo costruendo una coesione sociale che avrebbe permesso di distribuitrli. Le riparazioni fissate dopo Versailles erano ingenti; molto più ragionevole era l'ipotesi di Keynes, secondo cui una cifra come 10 miliardi di dollari sarebbe stata sopportabile, diversamente dai 40 miliardi di dollari che aveva calcolato come implicitamente imposti dal trattato di Versailles, o i 33 miliardi più le tasse sulle esportazioni (da ripagare nel corso di 42 anni) concordati dalla Commissione per le riparazioni nell'aprile del 1921. La questione era se ci fosse o meno la volontà di pagare. La scuola monetarista sostiene che l'inflazione tedesca dipese dall'eccessiva emissione di marchi da parte dela Reichsbank, mentre la strutturalista sostiene che dipese dall'incapacità dei vari segmenti dell'economia di distribuire gli oneri.
Eric J. Hobsbawn, Il secolo breve 1914/1991, l'età della catastrofe - nell'abisso economico: Nel caso estremo la Germania del 1923, l'unità monetaria perse di un milione di milioni il valore che aveva nel 1913, cioè a dire il valore della moneta si ridusse in pratica a zero. [...]. In breve, il risparmio privato scomparve completamente, creando così un vuoto quasi completo di capitali da investire in attività produttiva, il che spiega in grande misura il fatto che l'economia tedesca negli anni successivi alla guerra dovesse affidarsi in misura massiccia ai prestiti esteri. Questo la rese insolitamente vulnerabile allorché iniziò la crisi. [...]. Quando nel 1922-23 la grande inflazione finì, essenzialmente per la decisione dei governi di bloccare la stampa di carta moneta in quantità illimitate e di cambiare valuta, le persone in Germania che vivevano di risparmi o di redditi fissi si trovarono sul lastrico. [...]. Ci si può facilmente immaginare l'effetto traumatico di un'esperienza simile sulle classi medie e medio-basse. Essa rese l'Europa pronta per l'avvento del fascismo.
Marcello Flores, Storia universale - Il XX Secolo (allegato al Corriere della Sera), pag.257: I disoccupati, che nel 1930 sono già tre milioni, nel 1932 raggiungono i sei milioni. Il rapporto diretto che esiste tra crisi economica e l'ascesa del partito nazista emerge dai risultati elettorali. Nel 1928 la NSDAP ha appena il 2,6% dei voti, che salgono a 18,3% nel settembre 1930 (con sei milioni e mezzo di elettori) e raggiungono nel luglio 1932 il 37,4% dei consensi.
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