lunedì 24 aprile 2017

Helsinki 2014: quando Draghi spiegò le cause della crisi

Il testo che segue è la (mia) traduzione di un intervento del presidente della BCE Mario Draghi a Helsinki il 27 novembre 2014 (qui la versione integrale, a partire dal minuto 53 e 50 secondi, e qui l'estratto pubblicato da byoblu.com di Claudio Messora), ed è la sostanziale conferma di quanto già affermato l'anno precedente ad Atene dal suo vice (qui).


<<Non è che i paesi abbiano perso totalmente la flessibilità del cambio entrando nell’unione monetaria perché ad essi rimane la flessibilità del cambio dell’euro, ma certamente nell’unione monetaria hanno perso una parte di questa flessibilità. Pertanto, gli aggiustamenti devono avvenire attraverso la svalutazione interna. Ora, questa è la ragione per cui…no, prima di tutto, perché avvengono questi aggiustamenti? La risposta è un’altra domanda: sarebbe ipotizzabile un’unione monetaria con creditori e debitori permanenti, per sempre? Al giorno d’oggi queste unioni esistono, gli Stati Uniti d’America per esempio sono in una situazione dove lo stato dell’Oklahoma è un debitore permanente e quello di New York un creditore permanente. Ma allo stato attuale del dibattito politico è realistico pensare che una simile unione potrebbe esistere nel nostro caso? In un certo senso torniamo al discorso precedente,  le politiche d’integrazione politica ed economica sono collegate in questo caso, nel senso che questo non sarebbe realistico al momento. Quindi i paesi debitori devono gradualmente rientrare e perciò la disciplina, la politica economica, all’interno di un’unione monetaria è molto diversa da quella che ci sarebbe al di fuori di essa. Nel periodo precedente la crisi abbiamo avuto dei giganteschi trasferimenti di capitali in quei paesi che stavano semplicemente vivendo grazie al credito sia nel settore privato che in quello pubblico, e questo ha permesso due cose: il debito è cresciuto e i prezzi sono saliti. Essi stavano perdendo competitività e hanno finanziato questa mancanza di competitività tramite l’afflusso di capitali. Poi, ad un certo punto, la situazione è cambiata. Il credito si è bloccato ed essi hanno dovuto tornare competitivi riportando i prezzi, che nel frattempo erano cresciuti senza avere nessuna relazione con la produttività, ad un livello in cui questi paesi fossero di nuovo competitivi. Che cosa abbiamo imparato da questa lezione? Dunque, ci sono molte cose che abbiamo imparato ma la più importante è che dovremmo stare molto attenti in un’unione monetaria a non lasciare che gli stipendi e i prezzi crescano fuori da ogni controllo, dovremmo stare molto attenti a far rimanere i paesi competitivi all’interno dell’unione monetaria e non lasciare che la situazione sfugga di mano perché in quel caso saremmo in un certo senso puniti, non solo dal mercato ma anche da congelamento del flusso di capitali, com’è avvenuto durante la crisi>>.


Cosa intende Mario Draghi quando spiega che, a causa della parziale perdita della flessibilità del cambio, gli aggiustamenti devono avvenire attraverso la svalutazione interna? Con la parola aggiustamenti Draghi si riferisce al bilanciamento del saldo delle partite correnti con l'estero che potete osservare nel grafico che segue.

Il saldo delle partite correnti italiane, dopo un periodo di risalita dovuto all'uscita dallo SME nel 1992 (l'antesignano dell'euro) ritorna a peggiorare a partire dal 1997, cioè in concomitanza con la rivalutazione della lira (vedi qui) dovuta all'introduzione dei cambi obiettivo che sarebbero entrati in vigore a partire dal 1 gennaio 1999, anno di nascita dell'euro. A riportarlo in attivo sono le politiche di austerità che hanno distrutto la domanda di consumi interna e quindi anche il livello delle importazioni, favorendo così il progressivo aggiustamento dei nostri conti con l'estero.

La risalita avviene in corrispondenza del governo Monti nel modo in cui lui stesso ci ha illustrato in una nota intervista alla CNN (qui il video pubblicato sempre da byoblu.com). Alla domanda del giornalista: <<Vi serve qualcuno che compri i vostri prodotti? Mi sta dicendo che volete che sia la Germania a comprare da voi?>>, l'allora Presidente del Consiglio Mario Monti risponde: <<Stiamo guadagnando posizioni migliori in termini di competitività grazie alle riforme strutturali, stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale. Quindi, ci deve essere un'operazione di domanda attraverso l'Europa...>>.

Quello che avviene con la svalutazione interna, la distruzione della domanda, come dice Monti, provoca sì il miglioramento del saldo con l'estero (se diminuiscono i consumi calano anche le importazioni) ma anche il drastico aumento della disoccupazione.

Il tasso di disoccupazione che era diminuito nel periodo precedente la crisi ricomincia ad aumentare allo scoppio di essa e, dopo essersi stabilizzato tra il 2010 e il 2011, ricomincia a correre a causa della distruzione di domanda interna eseguita dal governo Monti (e dai successivi).

Si tenga presente che lo stesso presidente Draghi afferma che la politica economiche all'interno di un'unione monetaria è molto diversa da quelle che ci sarebbe al di fuori di essa. Infatti, con una moneta sovrana il riequilibrio delle partite correnti con l'estero sarebbe favorito della svalutazione esterna (quella della moneta) che renderebbe meno convenienti, per i residenti, le importazioni e al contrario più convenienti, per i non residenti, le nostre esportazioni. 

Il perché la svalutazione interna in un'unione monetaria sia invece necessaria, Mario Draghi, ce lo spiega quando afferma che, dato che non è possibile realizzare gli Stati Uniti d'Europa (vedi qui l'analisi dell'economista Sapir sul suo blog) e quindi una serie di trasferimenti gratuiti di capitali, ad opera del governo, dalle regioni ricche a quelle povere dello stato, come avviene in uno stato sovrano, le economie di quei paesi che si indebitano con gli altri stati dell'Unione devono gradualmente rientrare. Cioè devono pagare i loro debiti (in euro, ovviamente) invertendo il saldo delle partite correnti con l'estero.

Le cause dello squilibrio che provocano tutta questa sofferenza alle popolazioni colpite dalla distruzione della domanda interna sono illustrate subito dopo. Draghi ci racconta che, nel periodo precedente la crisi, sono avvenuti dei giganteschi trasferimenti di capitali in quei paesi che successivamente saranno colpiti dagli aggiustamenti (cosa per altro descritta molto bene dal suo vice qui una anno prima). In altre parole, si stavano indebitando in euro, cioè in una moneta del quale non controllano né l'emissione né il valore. Qui Mario Draghi fa riferimento al debito incamerato dal settore pubblico e privato, privandoci tuttavia di un dettaglio molto importante per stabilire le responsabilità della crisi. Infatti, al contrario del suo vice, non si sofferma sul fatto che ad esplodere prima della crisi, in Italia, come negli altri paesi maggiormente colpiti da essa, è stato più che altro il debito privato e non quello pubblico che invece stava diminuendo (in percentuale al PIL) come mostra il grafico seguente.

Si osservi come, nel periodo di riferimento, debito pubblico e privato italiano viaggino secondo una dinamica, per ampi tratti, opposta . Ad un calo del debito pubblico durante la seconda parte degli anni novanta si oppone un incremento del debito privato, che è quello che intende Draghi con: <<giganteschi trasferimenti di capitali>> . La crescita del debito privato è andata in parallelo con quella del debito estero (vedi qui). Dall'applicazione delle politiche di austerità, invece, in coerenza con l'aggiustamento del saldo delle partite correnti con l'estero, ricomincia a correre il debito pubblico mentre diminuisce quello privato in quella che è stata una vera e propria operazione di socializzazione delle perdite. 

Infine Mario Draghi ci spiega qual è la lezione che abbiamo imparato dalla crisi. Cioè, come possiamo evitare che tutto questo si ripeta. In pratica, per impedire che alcuni paesi dell'Unione perdano competitività nei confronti degli altri, e pertanto incamerino troppi debiti, va impedito che gli stipendi e i prezzi crescano più velocemente rispetto a quelli del resto della zona euro. Questo significa che, secondo la BCE, quei paesi che hanno subito la svalutazione interna dovranno mantenere le politiche di austerità a tempo indeterminato per impedire che ripartano i consumi e quindi, per la legge della domanda e dell'offerta, anche l'occupazione, gli stipendi e i prezzi. Questo significa che se avete perso il lavoro sarà per voi più difficile trovarne un altro. Cosa confermata anche dall'On. D'Attorre (ex PD), ospite a Omnibus su La7, in questo video .

In pratica, governi italiani privilegiano le richieste dei creditori esteri rispetto al nostro diritto costituzionale al lavoro. Ora lo sapete, e ne avete anche le prove.

venerdì 31 marzo 2017

La spesa pubblica italiana è la più sostenibile d'Europa

C'è un documento che la Commissione Europea redige allo scopo di stabilire la sostenibilità di lungo periodo della spesa pubblica dei paesi aderenti alla UE. Si intitola Fiscal Sustainability Report

A pagina 70 del rapporto 2015 c'è un paragrafo che si intitola "Risultati degli indicatori di sostenibilità nel lungo termine". Include l'analisi di un indicatore (chiamato S2) che mostra le eventuali correzioni necessarie alla spesa pubblica per stabilizzare il debito in un orizzonte temporale di lungo periodo tenendo conto dei maggiori costi dovuti all'invecchiamento della popolazione. 

A pagina 72 c'è un grafico (numero 4.7) che mostra la sostenibilità della spesa pubblica in base ai due fattori sopraccitati: 
  1. sull'asse delle ascisse (quello orizzontale) la posizione fiscale: essa è favorevole per i puntini che si trovano nel quadrante a sinistra e sfavorevole in quelli che invece sono a destra
  2. sull'asse delle ordinate (quello verticale) i costi legati all'invecchiamento della popolazione: la posizione è favorevole per i puntini che si trovano in basso e, al contrario, sfavorevole in quelli che invece sono in alto.
Pertanto, i paesi con la spesa pubblica più sostenibile sono quelli che si trovano in basso a sinistra, sotto la sottile linea rossa che divide obliquamente il grafico.

Se gli date un'occhiata scoprirete che l'Italia è quella messa meglio. Questo è, in sintesi, il giudizio di sostenibilità della nostra spesa pubblica espresso dalla Commissione Europea: 

<<L'Italia, al contrario, si trova nel quadrante in basso a sinistra con entrambi i costi previsti per l'invecchiamento e per la posizione fiscale iniziale che non comportano sfide riguardo alla loro sostenibilità nel lungo termine>>   

Capito? La Commissione Europea è lieta di informarci che l'Italia ha la spesa pubblica più sostenibile dell'intera Unione Europea. Al contrario, alcuni paesi cosiddetti virtuosi come: Germania, Lussemburgo, Belgio e Olanda si trovano tra i "cattivi". I primi due prevalentemente a causa del rapido invecchiamento della loro popolazione, mentre gli altri due principalmente a causa della loro pessima posizione fiscale di partenza.

Ma non ci avevano detto che la spesa pubblica è troppo alta, che l'Italia fallirà, e che non riceveremo mai la nostra pensione?! Leggere e documentarsi aiuta a non farsi incantare dai soliti luoghi comuni. E il bello è che c'è sempre qualcosa di nuovo da imparare.


giovedì 16 febbraio 2017

La barzelletta della crescita del PIL maggiore del previsto (non fa ridere)

Forse, in questi giorni, vi sarà capitato di leggere sul vostro giornale o di sentire alla TV che dati Istat sulla stima preliminare del prodotto interno lordo (il PIL) 2016 riportano una crescita maggiore del previsto.





Le stime Istat calcolano una crescita reale del PIL 2016 pari allo 0,9%, mentre le ultime previsioni del governo, pubblicate sulla nota di aggiornamento al DEF 2016 dello scorso settembre, indicano un aumento dello 0,8%. Quindi, in effetti, sembrerebbe che i media mainstream riportino la notizia correttamente. Invece non è così.

Tanto per cominciare il DEF 2016, in origine, riportava una crescita programmata del PIL reale pari all'1,2%, che solo successivamente è rivista al ribasso nella nota di aggiornamento di settembre che stimava una crescita del solo 0,8%. 

Fonte: nota di aggiornamento DEF 2016
Inoltre, la nota di aggiornamento al DEF 2015 (quello dell'anno precedente) prevedeva per il 2016 una crescita ancora più alta, 1,6%. Quasi il doppio rispetto al risultato effettivamente conseguito. Insomma, come avete avuto modo di capire in queste poche righe, non è che questo dato dell 0,9% sia poi così brillante, soprattutto se si considera il fatto che l'Italia è il paese che cresce meno in Europa

C'è infine un dettaglio tecnico che ai più è sfuggito. Il dato reale del PIL è la somma fra la crescita nominale e la variazione dei prezzi. Sempre il DEF 2016 prevedeva un'inflazione programmata dello 0,2%. Tuttavia, essendo l'Italia nel 2016 in deflazione (la variazione dei prezzi è stata negativa del -0,1%) il suo contributo alla crescita  reale è stato positivo anziché negativo come previsto (e come normalmente accade). In pratica, il dato del PIL reale 2016 risente favorevolmente anche del calo dei prezzi, a sua volta causato dalla bassa domanda di consumi.

Comunque, alla fine, questa discussione sul PIL sta diventando veramente puerile. Non solo perché si parla di frazioni di percentuali insignificanti ma soprattutto perché le cause della mancata crescita sono arcinote e, in questo quadro macroeconomico di cambi fissi, è inutile farsi illusioni.  

lunedì 28 novembre 2016

Referendum costituzionale - perchè per cambiare serve un no

Oggi sull'autobus ascoltavo una signora mentre parlava con un amico. Sosteneva, a proposito del referendum del prossimo 4 dicembre, che alcuni sono contrari proprio a tutto e che sanno dire solo no. Credo che abbia ragione. Comunque, spero che tali soggetti siano di più di quelli che, al contrario, pensano che sia sempre meglio dire di sì. Non facciamoci illusioni, tante persone votano per partito preso e non sentono il bisogno di approfondire gli argomenti. Del resto, neppure io che provo ad informarmi posso sostenere di possedere la piena consapevolezza riguardo alla mia scelta. Con lo studio e la corretta informazione si può però arrivare, quantomeno, ad esprimere in modo articolato le proprie idee.

Le riforme che la popolazione italiana ha subito in questi anni sono dettate dall'Europa. Credo che sia chiaro a molti. Per quanto riguarda la riforma costituzionale è il governo stesso, nel documento di presentazione del disegno di legge alle camere, a dichiarare che la riforma serve ad <<adeguare l'ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea>>.


La volontà del governo sembra richiamare un documento della società di consulenza JP Morgan del 2013, e cioè il fatto che la nostra costituzione, così com'è, non è adatta ad un'ulteriore integrazione europea.


L'articolo70 della costituzione, così come modificato dalla riforma, dispone che una delle funzioni delle camere sia l'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione Europea.





Secondo l'opinione dell'economista Massimo d'Antoni (su suggerimento del costituzionalista Luciano Barra Caracciolo) il rischio è che i famosi "compiti a casa" che ci invia periodicamente Bruxelles diventino un obbligo costituzionale, e non la semplice conseguenza dell'appartenenza dell'Italia a un trattato internazionale eventualmente rinegoziabile, o addirittura ripudiabile.

Tra l'altro, si da il caso che le letterine che riceviamo dall'Europa siano spesso già in contrasto con la prima parte della costituzione stessa (che, per altro, non è mai stata modificata). Ovvero contro il principio secondo cui l'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro (do you remember?) che applicato all'economia significa che il governo si dovrebbe impegnare a varare delle politiche volte alla piena occupazione, invece che all'austerità e alla protezione della moneta unica. E per chi non lo sapesse, le due cose (piena occupazione e difesa dell'euro) sono in contrasto fra loro.

Per ironia della sorte, quindi, quelli che credono che #bastaunsì per cambiare rischiano di dare il loro avallo a una riforma che, invece è perfettamente in linea con le più disastrose scelte politiche degli ultimi anni.


lunedì 21 novembre 2016

Chi aveva previsto la vittoria di Trump?

In democrazia vince la maggioranza, questo è ovvio. Altrettanto naturale è che essa, la maggioranza in quanto tale, difficilmente possa essere composta dalle menti più brillanti di un paese. A far pendere il piatto della bilancia, da una parte o dall'altra, è sempre il voto degli umili. Succede sempre, quando prevalgono le nostre idee ma anche quando questo non accade. Una maggiore consapevolezza di ciò dovrebbe convincerci ad essere meno snob.

Ho letto diverse analisi sulle presidenziali USA, tutte più o meno concordanti sul fatto che Trump sia riuscito a sfruttare l'ondata di malcontento che attraversa l'America (e non solo). Per quello che conta, quest'interpretazione è abbastanza coerente con l'opinione che mi sono fatto pure io. Non sarei in grado di fare un'analisi approfondita del valore politico dei due candidati, o di fare previsioni su quanto accadrà ora, però, dato che il risultato ha sorpreso molte persone (incluso me) ho ritenuto che fosse interessante mettervi a conoscenza del lavoro di uno storico che aveva previsto sia la vittoria di Trump che quella di altri presidenti in passato.

The Keys to the White House di Allan Lichtman, professore della facoltà di storia della American University di Washington D.C., è un sistema che si basa su 13 affermazioni. Quando 5, o meno, di esse comportano una risposta falsa (o negativa) vincerà il candidato del partito al governo. Se invece 6, o più, sono false prevarrà quello dell'opposizione.
  1. Nelle ultime elezioni, il partito del presidente ha guadagnato deputati rispetto alle precedenti elezioni di metà mandato 
  2. Non c'è stata una serrata competizione per la nomination del candidato da parte del partito di cui fa parte l'attuale presidente
  3. Il candidato è il presidente in carica 
  4. Manca la presenza di un forte candidato indipendente alle elezioni presidenziali (con almeno il 5% dei consensi)
  5. L'economia non è in recessione durante la campagna elettorale
  6. La crescita del PIL pro capite durante l'ultimo mandato presidenziale è stata maggiore o uguale a quella dei due mandati precedenti
  7. L'amministrazione in carica ha varato importanti riforme durante gli ultimi 4 anni 
  8. Non si è verificata una forte instabilità sociale durante l'ultimo mandato
  9. L'amministrazione in carica non è stata colpita da scandali importanti
  10. L'amministrazione in carica non ha subito importanti sconfitte militari o di politica estera
  11. L'amministrazione in carica ha raggiunto importanti obiettivi militari o di politica estera 
  12. Il candidato del partito del presidente in carica è ritenuto un leader carismatico o un eroe nazionale 
  13. Il candidato del partito avversario a quello del presidente in carica è ritenuto un leader carismatico o un eroe nazionale
Nel caso delle passate elezioni il Prof. Lichtman ha considerato false, o negative, le seguenti sei affermazioni: 1-3-4-7-11-12. Tanto sarebbe bastato alla Clinton per perdere.

Esiste anche un metodo matematico che calcola i consensi che otterrà il partito del presidente in carica in base alle risposte affermative (che nel nostro caso sono sette: 2-5-6-8-9-10-13) e a un insieme di valori calcolati sulle serie storiche delle passate elezioni. La formula è la seguente:

V = 37,2 + 1,8 x 7 (affermazioni vere) = 49,8% dei consensi al candidato del partito del presidente in carica (e quindi 50,2% al candidato sfidante, in questo caso Trump).

Secondo Wikipedia, il sistema del Prof. Lichtman ha previsto correttamente il risultato delle elezioni presidenziali a partire dal 1984. E' vero che alcune delle affermazioni sopra elencate, come quelle sul carisma dei candidati, possono essere frutto di interpretazioni soggettive ma alla maggior parte di esse si può rispondere in modo preciso. Quindi, se anche voi non siete riusciti ad indovinare il candidato vincente, ricordatevene alle prossime elezioni.

lunedì 3 ottobre 2016

La polemica sul prelievo fiscale al 64,8%

In data 31 agosto, il Sole24Ore ha pubblicato un articolo che conteneva una tabella (figura 1) che ha fatto molto discutere, e che conteneva due dati:
  1. la percentuale di prelievo fiscale sugli utili aziendali (corporate tax rate)
  2. la percentuale di prelievo fiscale complessiva sulle società (total tax rate)
Sul primo dato non c'è molto da dire, anche perché il prelievo fiscale sugli utili, in Italia, è in linea con quello di altri grandi paesi industriali (Italia 31,4%, Francia 36,6%, Germania 29,8%, USA 35%).

Invece, la percentuale di prelievo complessiva, che in Italia è più alta che in tutti gli altri paesi della tabella, ha provocato molte polemiche. Come prima cosa però occorre osservare che il total tax rate, pubblicato dalla Banca Mondiale, è un rapporto tra due grandezze. Pertanto, come succede anche nelle relazioni umane, il risultato è influenzato da entrambi i termini. Da una parte (a numeratore) ci sono le tasse pagate e dall'altra (a denominatore) i profitti complessivi (figura 2). Questa premessa è importante se consideriamo il fatto che, nel total tax rate, tra le tasse pagate non ci sono solo quelle sui profitti (ovvero l'Ires che in Italia ha un'aliquota del 27,5%, che nel 2017 si ridurrà al 24%) ma anche (e non solo) i contributi sociali che si pagano sul reddito dei lavoratori, e non su quello della società. E' quindi possibile che quella percentuale del 64,8% dipenda anche dal fatto che in questi anni di crisi, in Italia, i profitti delle società siano stati piuttosto esigui.

Relativamente alla polemica scoppiata sui contributi, ci sarebbe anche un'osservazione da fare. Infatti, nel nostro sistema pensionistico, quello contributivo, ciò che l'azienda versa è alla base del calcolo della nostra futura pensione. Una riduzione dei contributi porterebbe, come conseguenza, delle pensioni più basse che, a loro volta, causerebbero un calo dei consumi e minori profitti aziendali (per l'ovvio principio per cui chi non guadagna non spende). Questo, non sarebbe un elemento a favore dell'abbassamento del total tax rate.

Vorrei terminare invitandovi a osservare (come avevo già fatto qui) che, nonostante alcuni luoghi comuni persistano, in Italia il costo orario del lavoro, comprensivo del costo dei contributi, non è più alto di quello della media dell'eurozona (figura 3). Se il governo volesse comunque abbassarlo per favorire la ripresa economica (ma non vuole, vedi figura 4), sarebbe più saggio diminuire l'imposta sul reddito (Irpef) al posto dei contributi sociali.

Figura 1: la tabella pubblicata sul Sole24Ore contenente le percentuali di tassazione sulle società. Fonte: www.infodata.ilsole24ore.com
Figura 2: come spiega il sito della Banca Mondiale, il total tax rate è considerato <<as a share of commercial profits>> ovvero come percentuali dei profitti commerciali. Fonte: World Bank (per visualizzare la metodica di calcolo del total tax rate cliccare details). Tra l'altro, il grafico della World Bank indica come questo valore sia in diminuzione rispetto al 2005 quando era al 76,7%, il che indica che il rapporto fra tasse e profitti, in questi anni, nonostante tutto, è più favorevole che in passato per le società.


Figura 3: Il costo orario del lavoro in Italia è di poco sotto la media dell'eurozona (EA-19) e il costo delle componenti diverse dallo stipendio, tra cui i contributi, e di poco sopra la media. Fonte: Eurostat
Figura 4: Il ministro Padoan ammette che sono state le politiche d'austerità volute dal governo a bloccare la crescita. Se volete sapere perché l'hanno fatto, qui troverete l'amara verità


lunedì 19 settembre 2016

Ciampi e il debito pubblico

La qualità di un'informazione si valuta considerando due elementi: correttezza e completezza.

Per quanto riguarda la correttezza, è raro leggere affermazioni completamente errate. Più problemi comporta la completezza. Di seguito troverete un tweet dell'On. Ichino (PD) che vi invito a leggere.


La frase è sostanzialmente corretta, tenendo conto che si tratta di un tweet, ma nello stesso tempo è talmente incompleta da risultare fuorviante. Personalmente, la considero addirittura provocatoria. Ora vi spiegherò perché.

Il grafico qui sotto rappresenta l'andamento del debito pubblico italiano, in rapporto al prodotto interno lordo, dal 1970 ad oggi. Per ricostruire i dati dal 1970 al 1979, dal momento che non sono disponibili ne sul database della Banca d'Italia (che arriva al 1980) ne su quello dell'OCSE (che arriva al 1995) ho preso i valori sul PIL nominale dall'archivio ISTAT, e quelli del debito pubblico dalla pubblicazione "Il debito pubblico dall'unità ad oggi". I dati successivi al 1979 sono di Banca d'Italia. Ho evidenziato i periodi in cui il defunto presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi è stato rispettivamente: governatore di Banca d'Italia e politico con vari incarichi di governo (presidente del consiglio 1993-1994, ministro del bilancio e poi del Tesoro 1996-1999 ed infine presidente della Repubblica 1999-2006).


La frase dell'On. Ichino si riferisce al periodo in cui Carlo Azeglio Ciampi era ministro quando, in effetti, il debito pubblico diminuì. Tuttavia, negli anni in cui, sempre il defunto, era alla guida della nostra banca centrale esso raddoppiò. Al rapido incremento del debito pubblico, certamente, contribuì l'avvenimento noto come "divorzio fra ministero del Tesoro e Banca d'Italia" (di cui ho già scritto). Esso sancì l'indipendenza della banca centrale che, da allora, non fu più costretta a comprare i titoli di stato in eccesso (invenduti) che il ministero del Tesoro immetteva sul mercato. Questo comportò un aumento dei tassi d'interesse che lo stato, cioè noi contribuenti, abbiamo pagato agli investitori. Come conseguenza di ciò, risorse che il governo avrebbe potuto destinare ai servizi, e quindi a favore di più bisognosi, vennero utilizzati per il pagamento delle rendite di coloro i quali possono permettersi di risparmiare e investire (primi fra tutti le banche).

Ad ammettere le conseguenze del cosiddetto "Divorzio" fu lo stesso ex ministro Beniamino Andreatta cioè colui il quale decise, insieme all'allora governatore Ciampi, questo cambiamento di portata storica.

<<Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l'escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale>> (Beniamino Andreatta - IlSole24Ore 1991).

Ricordare correttamente le scelte di un personaggio passato a miglior vita non c'entra niente con la mancanza di rispetto per i morti. Il rispetto del dolore di familiari e amici, non va confuso con i fatti storici. Perché, con le scorrettezze, le bugie, o le mezze verità, non si rispetta la memoria dei defunti e neanche quella dei vivi.

Per concludere il discorso sulla completezza dell'informazione, vi devo avvertire che anche questo post è incompleto. Ci sarebbero ancora tante cose da aggiungere sull'argomento. Chi vuole capire deve approfondire sempre di più.