mercoledì 29 novembre 2017

Per quelli che il PIL cresce e la crisi è alle spalle

<<Nel terzo trimestre 2017 il PIL italiano è aumentato dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e dell'1,8% su base annua>> (ANSA)

La debole ma continua crescita del prodotto interno lordo (PIL) avvenuta negli ultimi trimestri ha infuso un po' di ottimismo agli italiani. C'è addirittura chi, come il Presidente del Consiglio Gentiloni, si è spinto fino a dichiarare che l'Italia si è ormai lasciata alle spalle la crisi (ANSA).

Per avere un quadro più comprensibile della situazione del prodotto interno lordo in Italia credo che potrà esservi utile una serie storica po' più ampia di quella riferita ai soli dati dell'ultimo, o degli ultimi trimestri.


Il grafico qui sopra raffigura il PIL procapite dall'unità d'Italia al 2013 (in migliaia di euro). Osservando la parte finale della linea azzurra, quella che si riferisce ai valori più recenti, noterete che quella attuale sembra essere una situazione abbastanza anomala nella storia di questo paese. Infatti, la distruzione di reddito sperimentata negli ultimi anni non ha precedenti, in Italia, in tempo di pace e non solo. Il calo del PIL, in proporzione, è maggiore delle conseguenze patite a causa della crisi del 1929, del tutto paragonabile a quello sofferto durante la prima guerra mondiale, e secondo solo all'immane tragedia (non solo economica) provocata dal secondo conflitto mondiale.

Restringiamo ora il nostro punto d'osservazione ad un periodo più recente della nostra storia.


La figura qui sopra mostra innanzitutto che, nonostante l'ottimismo del nostro Presidente del Consiglio, non sembra che la crisi sia già alle nostre spalle. Se, a fine anno il reddito procapite italiano crescesse, come previsto, dell'1,8% in termini reali rispetto all'anno precedente, arrivando a circa € 26.400, sarebbe ancora inferiore rispetto a quello pre crisi che nel 2007 era di ben € 28.699. Al ritmo di crescita dell'1,8% dovremo aspettare il 2022 per poter dire di esserci portati davvero "la crisi alle spalle".

Quello che però temo che non potremo dire neanche nel 2022 è che l'Italia abbia recuperato il tempo perduto durante la crisi. Infatti, se seguite la linea tratteggiata che rappresenta l'ipotesi di una crescita lenta ma costante dell'1% (simile a quella registratasi negli anni più recenti precedenti la crisi) noterete che, senza quest'incidente di percorso, nel 2022, il PIL procapite avrebbe dovuto essere di circa € 33.300 mentre, se tutto va bene, pur crescendo al ritmo dell'1,8% reale annuo sarà ancora solo di circa € 28.900, più o meno € 4.400 in meno a testa.

Ma l'incognita principale resta l'ipotesi che tutto vada bene fino al 2022. Infatti, le cause che hanno portato alla crisi sono tutt'altro che rimosse, e oggi la disoccupazione è molto più alta di dieci anni fa. Un nuovo crollo delle nostre esportazioni, causato da una nuova recessione mondiale, renderebbe necessario, una volta di più, quel doloroso aggiustamento dei conti con l'estero, chiamato austerità, che nessun governo del presente (e del futuro) potrà evitare se vorrà confermare il suo impegno a rimanere nella zona euro. A quel punto, il PIL tornerà a scendere e la disoccupazione a salire.

Scrivendo queste cose non voglio spegnere l'entusiasmo di nessuno, e nemmeno avvilire chi per natura è meno ottimista. La fortuna e le disavventure di ognuno di noi non hanno per forza a che fare con i dati macroeconomici. Purtroppo però, il bene complessivo della società ne è fortemente influenzato. Pertanto, ritengo che sia meglio avere consapevolezza del fatto che dentro questo sistema non ci può essere una ragionevole prospettiva di prosperità comune perché la crescita economica, così come il pieno impiego, sono obiettivi subordinati agli sforzi necessari al mantenimento di una moneta; l'euro. Quindi, non è razionale aspettarsi dal nostro governo che faccia i nostri interessi ne pretendere che vi raccontino la verità mentre cercano di approvare le riforme che saranno necessarie ad attuare i prossimi sacrifici.

lunedì 9 ottobre 2017

Catalogna: disoccupazione e indipendenza

Non so voi come la pensiate sulla questione dell'indipendenza catalana e io non ho lo spessore intellettuale per poter dare un legittimo giudizio sull'argomento. Credo solo che, in democrazia, la volontà della maggioranza di una comunità vada rispettata. Tuttavia, in questo articolo vorrei porre l'attenzione su un altro punto di che mi sembra comunque degno di nota. Nonostante una Catalogna indipendente sia un'ideale da sempre presente nella società, e nella vita politica, catalana è sorprendente come nell'ultimo decennio essa abbia guadagnato sempre più consenso tra la popolazione autoctona. Questo è successo di pari passo con l'aggravarsi di un'altra questione, quella della crescente disoccupazione. Un sondaggio ICPS - Sondeigs d'Opinió Catalunya mostra come la percentuale di elettori che sono a favore dell'idea di uno stato catalano sia aumentata drasticamente tra il 2008 e il 2012, proprio in concomitanza con le pesanti politiche "anti crisi" imposte dall'Unione Europea al governo spagnolo (cioè le misure necessarie a rimanere nell'euro).

Fonte: lainformacion.com
L'effetto delle suddette politiche è stato appunto quello di produrre una sempre maggiore disoccupazione (dati INE  - Instituto Nacional de Estadistica).

Fonte: elperiodico.com
La correlazione tra i dati sopra esposti sull'indipendenza e la disoccupazione, calcolata tramite Excel, raggiunge quasi il 90% tra il 2008 e il 2012. Non posso escludere il fatto che tra le due variabili ci sia una relazione spuria (inesistente). D'altro canto, mi sembra piuttosto plausibile l'ipotesi che questa situazione abbia esacerbato gli animi, e fatto pensare a una schiera sempre più ampia di catalani che la via dell'indipendenza potesse rappresentare una soluzione ai propri problemi.


Alla luce di quanto sopra illustrato, a mio parere, emergono le seguenti considerazioni:
  1. se il problema della disoccupazione avesse, come ipotizzato, un peso davvero importante sulla questione dell'indipendenza, l'atteggiamento distaccato dell'Unione Europea che reputa la questione catalana un semplice affare interno alla Spagna sarebbe piuttosto ipocrita
  2. vista la crescente tensione maturata tra i governi di Barcellona e Madrid è forse il caso di domandarsi se l'integrazione europea, e le politiche ad essa connesse, contribuiscano sempre positivamente alla pace tra i popoli
  3. tenuto conto delle dichiarazioni del governo catalano, che vede la futura Catalogna come parte integrante della UE, non è immediatamente comprensibile come mai essi siano tanto decisi a separarsi dai compagni di sventura spagnoli e, nello stesso tempo, non abbiano alcuna paura a gettarsi direttamente tra le braccia dei propri carnefici di Bruxelles.

lunedì 11 settembre 2017

E' vero che tecnologia ci renderà tutti disoccupati?

Non so se è capitato anche a voi di sentir dire da qualcuno che per l'avanzamento tecnologico farà sparire la maggior parte dei lavori attualmente esistenti. Il fenomeno della disoccupazione tecnologica deve davvero spaventarci?

Due doverose premesse: la mia analisi è su dati macro (quindi non riguarda un paese o un lavoro specifico) ed è rivolta al passato perché non ho la palla di cristallo, quindi non so se domani inventeranno una macchina che da sola potrà sostituirci tutti (caso limite che mi sentirei di escludere da un discorso di aspettative razionali).

Veniamo al punto. La domanda che mi sono posto è: dato che viviamo in un mondo già piuttosto avanzato rispetto a 20 o 30 anni fa, se davvero l'evoluzione tecnologica provoca disoccupazione, questo fenomeno non dovrebbe già essere piuttosto evidente?

Tuttavia, nonostante dal 1990 la popolazione sia cresciuta da 5,3 a 7,4 miliardi e, nello stesso periodo, la forza lavoro sia aumentata da 2,3 a 3,4 miliardi la percentuale di disoccupati è rimasta piuttosto stabile (sopratutto se teniamo conto dei danni provocati dalla crisi del 2008 da cui una parte dell'Europa non si è ancora ripresa). Infatti, il tasso di disoccupazione mondiale nel 1994 era del 5% mentre quello del 2014 del 5,9% (con una tendenza in discesa negli ultimi anni ). La fonte dei dati è il database della World Bank e in fondo a questo post potrete osservare i grafici.

Non si può certo dire che dagli anni novanta il mondo non sia cambiato. Telefoni cellulari, internet, computer, etc. etc. hanno fatto passi da gigante. Certo, qualche lavoro in meno tutta questa tecnologia l'avrà causato. Tuttavia, la disoccupazione non è aumentata.

Anche se oggi alcuni lavori sono, quasi, scomparsi altri hanno preso il loro posto; Inoltre, l'aumento della popolazione, e il maggior accesso ai consumi, fa in modo che la produzione aumenti e che quindi ci sia bisogno di sempre più persone che lavorino. Infatti, oggi si produce molto di più rispetto a 20-30 anni fa.

Esaminando questi dati, quindi, non si osserva alcuna tendenza che possa far ipotizzare una disoccupazione tecnologica di massa nel prossimo futuro. E' vero che in molti paesi la disoccupazione c'è, ed è un problema sempre più drammatico, ma più che alla tecnologia è attribuire alla recessione/stagnazione economica e alle crescenti disuguaglianze.









lunedì 7 agosto 2017

I lavori che gli italiani non possono più fare

Un'interessante grafico dell'ISTAT mostra la percentuale di posti di lavoro vacanti. Come potete vedere, alla fine del primo trimestre 2017 risultano essere solo 0,8% del totale.


Certo, è sempre possibile che ci sia qualche azienda che non trova personale: il ristorante dell'amico, la piccola impresa del parente, qualche caso di cui parla la TV o il giornale, etc. etc..

Tuttavia queste situazioni sono eccezioni e nulla fa pensare che esista, in Italia, un esercito di fannulloni. Quelli che l'ex ministro Fornero chiamava "choosy" (schizzinosi) sono un luogo comune, come i cosiddetti lavori che gli italiani non vogliono più fare.

Al contrario, dal dato di disoccupazione a maggio 2017 che si attestava all'11,3% (dato ISTAT maggio 2017) il doppio del livello pre crisi, e soprattutto, da quello relativo alla disoccupazione giovanile al 33,6%  (dato ISTAT primo trimestre 2017) sembrerebbe più che altro che esistano dei lavori che gli italiani non possono più fare.

lunedì 10 luglio 2017

Uscire dall'euro costerebbe all'Italia 300 miliardi?

Qualche tempo fa tenne banco per qualche giorno la discussione sui debiti della Banca d'Italia verso la Banca Centrale Europea nell'ambito del sistema Target 2.

Target 2 è un acronimo che indica la principale piattaforma per il regolamento di pagamenti tra banche centrali dei paesi europei (Trans-european Automated Real-time Gross settlement Express Transfer system). In pratica, ogni banca centrale ha una posizione aperta di credito, o di debito, verso la BCE che deriva dalle operazioni avvenute fra le banche del proprio paese e quelle appartenenti al sistema. L'argomento è molto tecnico e meriterebbe un lungo approfondimento di cui, peraltro, non mi sento all'altezza. Per chi ne sentisse la necessità, vi indico alcuni collegamenti utili a tal proposito:
Agli altri basterà sapere che quando effettuiamo un'operazione con un residente nell'area euro, ad esempio un acquisto di merce, accadono i seguenti passaggi:
  1. la nostra banca ci addebita la somma 
  2. sempre la nostra banca, da istruzioni a Banca d'Italia di addebitare il suo conto presso dei lei
  3. Banca d'Italia, a sua volta, addebita il suo conto presso la Banca Centrale Europea
  4. la BCE, tramite il sistema Target 2, fa accreditare la somma sul conto, presso di lei, della banca centrale del paese di destinazione 
  5. la banca centrale del paese di destinazione la accredita sul conto della banca presso la quale il nostro fornitore è correntista
  6. infine, sempre la stessa banca, passa la somma sul conto del nostro fornitore
E' importante sapere che i rapporti di ogni banca centrale verso la BCE nell'ambito del sistema Target 2 non vengono mai regolati e che ognuno si tiene i suoi crediti e debiti. Fino alla crisi del 2007, i saldi erano erano piuttosto bilanciati. Nessun paese aveva posizioni aperte per un ammontare molto rilevante verso il sistema Target 2. Poi però le cose sono cambiate così:

Fonte: Euro Crisis Monitor
La domanda che ci si pone ora è che fine farebbero i debiti e i crediti di un paese che abbandonasse l'eurozona? Personalmente, credo che il commercio intraeuropeo non finirebbe immediatamente dopo l'uscita di un paese dall'euro, e che quindi ci sarebbe comunque bisogno di un altro sistema che sostituisca l'attuale Target 2. Quindi, non vedo proprio il motivo per cui le passività (o le attività) dovrebbero essere saldate all'istante. La cosa più probabile è che si troverebbe un accordo per andare avanti senza provocare troppi danni a nessuno. Ma questa, evidentemente, è solo una mia ingenua speranza perché il presidente della BCE Mario Draghi, rispondendo ad un'interrogazione del parlamentare europeo Marco Zanni (la storia che vi sto raccontando è sua) ha invece affermato categoricamente che per poter uscire dall'euro si deve prima saldare la propria posizione passiva con il sistema Target 2 (per l'italia pari a circa 340 miliardi al momento dell'interrogazione).

La questione è quindi chiusa? Non proprio, perché a quel punto un altro europarlamentare ha voluto sapere se la stessa prassi verrebbe adottata anche verso i paesi a credito con il sistema Target 2 che dovessero lasciare l'euro. Ad esempio la Germania dovrebbe ricevere immediatamente dalla BCE il suo saldo attivo pari a circa 750 miliardi di euro? La domanda è lecita, e la risposta più intuitiva dovrebbe essere affermativa. Invece no. Il presidente Draghi, in questo caso, fa appello alla irrevocabilità dell'euro e afferma che non può rispondere a questioni escluse dai trattati.

Soddisfatti? A me sembra che le risposte del presidente Mario Draghi siano in contraddizione l'una con l'altra, e che non risolvano affatto la questione. Ma in fondo è normale, come lui stesso ammette nel secondo caso, il problema non può essere risolto dalla BCE.

Permettetemi infine una piccola battuta sull'irrevocabilità dell'euro. Tutti i banchieri centrali vi diranno che la loro moneta è irrevocabile. D'altronde lo erano anche tutte le valute nazionali preesistenti all'euro, e anche tutte quelle che c'erano prima di queste andando a ritroso nel tempo fino agli albori della storia della moneta.

Di seguito potrete leggere tutti i documenti a cui si fa riferimento in questo post. Così non dovrete fidarvi di me ma solo dei vostri occhi e della vostra capacità di giudizio.

Interrogazione dei parlamentari europei Marco Zanni e Marco Valli al presidente della BCE Mario Draghi dell'8 dicembre 2016.  Fonte: Europalamento





Risposta del presidente Mario Draghi all'interrogazione dei parlamentari europei Marco Zanni e Marco Valli dell'8 dicembre 2016. Fonte: BCE



Interrogazione del parlamentare europeo Hans-Olaf Henkel al presidente della BCE Mario Draghi. Fonte: Europarlamento




Risposta del presidente Mario Draghi al parlamentare europeo Hans-Olaf Henkel. Fonte: BCE






mercoledì 14 giugno 2017

Merkel vs Trump. Perché litigano?

La verità è che Washigton e Berlino sono ai ferri corti da prima che Trump conquistasse la presidenza. Nel 2016 la casa automobilistica Volkswagen si è accordata con il governo USA per una multa di 15 miliardi di dollari per lo scandalo dei motori diesel "truccati", Nel frattempo la Germania è finita nella lista dei paesi che Bloomberg ha presentato al congresso USA come sorvegliati speciali per i tassi di cambio. Infine, la Deutschebank ha dovuto patteggiare con il governo americano una multa da 7 miliardi per i derivati tossici.

Ma qualche giorno fa la tensione tra i due paesi ha toccato livello più alto mai raggiunto in questi anni a causa del seguente tweet del nuovo inquilino della Casa Bianca, .

Qualcuno forse resterà deluso scoprendo che non si tratti di uno scontro di personalità, di una battaglia tra sessi, o di un litigio originatosi nel tentativo di trovare un nuovo accordo sul clima. La prima cosa che il presidente Trump rinfaccia ai tedeschi è l'imponente deficit commerciale accumulato dagli USA nei confronti della Germania (MASSIVE trade deficit. Notate il maiuscolo).

Dovete sapere che la Germania è il quinto mercato USA (dopo: Cina, Canada, Messico e Giappone). E, in questi anni, il deficit della bilancia commerciale americana nei confronti di quella tedesca è andato peggiorando.


Il motivo per cui sembra stia diventando una consuetudine prendersela con il surplus commerciale tedesco è che il saldo delle partite correnti della Germania con l'estero è il più alto al mondo. Supera anche quello cinese.


Dato che la Terra non ha uno scambio commerciale, o di capitali, con altri pianeti non possiamo tutti esportare. Per contro, quindi, ad un paese che esporta ne corrisponde uno che importa. Si tenga conto del fatto che, da quando è scoppiata la crisi dell'eurozona l'unica strategia concessa dalla UE ai paesi sotto stress per la crisi è stata l'austerità, che significa esportare di più ed importare di meno. Ora il presidente USA sembra intenzionato a privilegiare le produzioni locali.


Ma a noi italiani conviene stare con i tedeschi o con gli americani? Cerchiamo di eliminare dal discorso le solite prese di posizione partigiane che non aiutano a capire il problema (come quelle di chi dice che siccome siamo europei dobbiamo stare con la Germania, o quelle di coloro i quali invece ci ricordano com'è andata l'ultima volta che ci siamo alleati con i tedeschi contro gli americani).

Sicuramente un euro basso sul dollaro permette anche a noi di esportare in USA, ma la stessa moneta, l'euro, comprime anche le nostre esportazioni verso la Germania (nostro primo partner commerciale) e gli altri paesi europei. Un'eventuale svalutazione del dollaro, e quindi un rafforzamento dell'euro sulla moneta americana, sarebbe fonte di grande instabilità per la zona euro. Una rottura dell'euro rafforzerebbe la nuova moneta tedesca sul dollaro. Allo stesso tempo è ipotizzabile che la sorte della nuova moneta italiana sarebbe ben diversa, con il risultato che continueremmo a beneficiare delle esportazioni in USA e ritorneremmo ad esportare molto di più anche in Germania.

lunedì 22 maggio 2017

Il vincolo esterno

Oggi vorrei parlarvi brevemente di questo grafico:


E' una rappresentazione della correlazione che esiste tra l'aumento del PIL (cioè il reddito) e quello delle importazioni. I curiosi potranno leggere alla fine di questo post come ho costruito il grafico, agli altri basti osservare come al crescere del PIL (sull'asse orizzontale) aumentino anche le importazioni (sull'asse verticale). Lo si intuisce dall'andamento dei pallini blu, che sono le coppie di valori PIL/importazioni di ogni singolo paese, e che si muovono lungo linea obliqua nera. La correlazione tra PIL ed importazioni, così come da me calcolata, è molto significativa (80%). Questo significa che il maggior reddito spiega l'ottanta per cento delle maggiori importazioni.

Vi ho mostrato questo disegnino spiegarvi cosa succederebbe al nostro paese se domani il governo decidesse, ad esempio, di abbassare le tasse, o di introdurre un generoso sussidio in favore dei disoccupati. Aumenterebbe il reddito disponibile, quindi i consumi e di conseguenza (come evidenziato nel grafico) anche le importazioni.

Questo che ho appena esposto, spero in modo corretto e comprensibile, viene chiamato "vincolo esterno", e riguarda tutti i paesi del mondo. Nessuno può permettersi di importare dall'estero senza, a sua volta, esportare qualcosa in cambio. Anche solo per cucinare un'italianissima pasta importiamo qualcosa, per esempio il gas con il quale scaldiamo l'acqua!

Tuttavia da noi il vincolo esterno è più stringente, perché all'aumentare delle importazioni dal resto dei paesi dell'area euro (per esempio dalla Germania che è il nostro primo partner commerciale) non si contrappone l'effetto compensativo della svalutazione del cambio, quindi i loro prodotti rimangono sempre (relativamente) a buon mercato.

Inoltre, in un mercato unico come quello della UE, non si possono fare leggi per privilegiare i prodotti nostrani a dispetto di quelli provenienti dal resto d'Europa, ad esempio tramite dazi o quote all'importazione, altrimenti non sarebbe un mercato unico.

Quindi, anche se non ne sentite mai parlare (e vi lascio immaginare il motivo) quello del vincolo esterno è un problema economico che preoccupa molto i nostri governanti, più del debito pubblico, della corruzione, degli evasori, della criminalità, etc. etc.

Sappiate che la Francia, paese nella quale si sono appena svolte le elezioni, ha un problemuccio. Da anni, i nostri cugini transalpini importano più di quanto esportano. Un economista professionista, quindi non io che sono un dilettante, direbbe che hanno un persistente squilibrio del saldo delle partite correnti, negativo, che presto o tardi andrà sistemato.

Volete sapere come si comporterà il governo di Parigi di fronte a questa rogna? Io non ho la palla di vetro per prevedere il futuro ma la predilezione che il nostro ex presidente del Consiglio Mario Monti ha per il neoeletto Emmanuel Macron non promette nulla di buono per i francesi. Bonne chance mes amis!

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Solo per i più curiosi.

Il grafico è costruito utilizzando i dati, a valori nominali, in dollari del PIL e delle importazioni del 2014, di 136 paesi. Ho eliminato dalla lista Cina e Stati Uniti solo perché il loro PIL è molto più elevato rispetto al resto dei paesi del mondo e schiacciavano tutti gli altri pallini della figura verso il centro degli assi rendendola meno comprensibile. Così facendo la correlazione è scesa dall'88% all'80%, e questo mi mette al riparo dall'accusa di fare cherry picking, o come diciamo in Italia, di selezionare i dati secondo convenienza. Le fonti sono le seguenti: per il PIL il database WEO (World Economic Outlook) mentre le importazioni sono fornite dalla Banca Mondiale (World Bank).

lunedì 24 aprile 2017

Helsinki 2014: quando Draghi spiegò le cause della crisi

Il testo che segue è la (mia) traduzione di un intervento del presidente della BCE Mario Draghi a Helsinki il 27 novembre 2014 (qui la versione integrale, a partire dal minuto 53 e 50 secondi, e qui l'estratto pubblicato da byoblu.com di Claudio Messora), ed è la sostanziale conferma di quanto già affermato l'anno precedente ad Atene dal suo vice (qui).


<<Non è che i paesi abbiano perso totalmente la flessibilità del cambio entrando nell’unione monetaria perché ad essi rimane la flessibilità del cambio dell’euro, ma certamente nell’unione monetaria hanno perso una parte di questa flessibilità. Pertanto, gli aggiustamenti devono avvenire attraverso la svalutazione interna. Ora, questa è la ragione per cui…no, prima di tutto, perché avvengono questi aggiustamenti? La risposta è un’altra domanda: sarebbe ipotizzabile un’unione monetaria con creditori e debitori permanenti, per sempre? Al giorno d’oggi queste unioni esistono, gli Stati Uniti d’America per esempio sono in una situazione dove lo stato dell’Oklahoma è un debitore permanente e quello di New York un creditore permanente. Ma allo stato attuale del dibattito politico è realistico pensare che una simile unione potrebbe esistere nel nostro caso? In un certo senso torniamo al discorso precedente,  le politiche d’integrazione politica ed economica sono collegate in questo caso, nel senso che questo non sarebbe realistico al momento. Quindi i paesi debitori devono gradualmente rientrare e perciò la disciplina, la politica economica, all’interno di un’unione monetaria è molto diversa da quella che ci sarebbe al di fuori di essa. Nel periodo precedente la crisi abbiamo avuto dei giganteschi trasferimenti di capitali in quei paesi che stavano semplicemente vivendo grazie al credito sia nel settore privato che in quello pubblico, e questo ha permesso due cose: il debito è cresciuto e i prezzi sono saliti. Essi stavano perdendo competitività e hanno finanziato questa mancanza di competitività tramite l’afflusso di capitali. Poi, ad un certo punto, la situazione è cambiata. Il credito si è bloccato ed essi hanno dovuto tornare competitivi riportando i prezzi, che nel frattempo erano cresciuti senza avere nessuna relazione con la produttività, ad un livello in cui questi paesi fossero di nuovo competitivi. Che cosa abbiamo imparato da questa lezione? Dunque, ci sono molte cose che abbiamo imparato ma la più importante è che dovremmo stare molto attenti in un’unione monetaria a non lasciare che gli stipendi e i prezzi crescano fuori da ogni controllo, dovremmo stare molto attenti a far rimanere i paesi competitivi all’interno dell’unione monetaria e non lasciare che la situazione sfugga di mano perché in quel caso saremmo in un certo senso puniti, non solo dal mercato ma anche da congelamento del flusso di capitali, com’è avvenuto durante la crisi>>.


Cosa intende Mario Draghi quando spiega che, a causa della parziale perdita della flessibilità del cambio, gli aggiustamenti devono avvenire attraverso la svalutazione interna? Con la parola aggiustamenti Draghi si riferisce al bilanciamento del saldo delle partite correnti con l'estero che potete osservare nel grafico che segue.

Il saldo delle partite correnti italiane, dopo un periodo di risalita dovuto all'uscita dallo SME nel 1992 (l'antesignano dell'euro) ritorna a peggiorare a partire dal 1997, cioè in concomitanza con la rivalutazione della lira (vedi qui) dovuta all'introduzione dei cambi obiettivo che sarebbero entrati in vigore a partire dal 1 gennaio 1999, anno di nascita dell'euro. A riportarlo in attivo sono le politiche di austerità che hanno distrutto la domanda di consumi interna e quindi anche il livello delle importazioni, favorendo così il progressivo aggiustamento dei nostri conti con l'estero.

La risalita avviene in corrispondenza del governo Monti nel modo in cui lui stesso ci ha illustrato in una nota intervista alla CNN (qui il video pubblicato sempre da byoblu.com). Alla domanda del giornalista: <<Vi serve qualcuno che compri i vostri prodotti? Mi sta dicendo che volete che sia la Germania a comprare da voi?>>, l'allora Presidente del Consiglio Mario Monti risponde: <<Stiamo guadagnando posizioni migliori in termini di competitività grazie alle riforme strutturali, stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale. Quindi, ci deve essere un'operazione di domanda attraverso l'Europa...>>.

Quello che avviene con la svalutazione interna, la distruzione della domanda, come dice Monti, provoca sì il miglioramento del saldo con l'estero (se diminuiscono i consumi calano anche le importazioni) ma anche il drastico aumento della disoccupazione.

Il tasso di disoccupazione che era diminuito nel periodo precedente la crisi ricomincia ad aumentare allo scoppio di essa e, dopo essersi stabilizzato tra il 2010 e il 2011, ricomincia a correre a causa della distruzione di domanda interna eseguita dal governo Monti (e dai successivi).

Si tenga presente che lo stesso presidente Draghi afferma che la politica economiche all'interno di un'unione monetaria è molto diversa da quelle che ci sarebbe al di fuori di essa. Infatti, con una moneta sovrana il riequilibrio delle partite correnti con l'estero sarebbe favorito della svalutazione esterna (quella della moneta) che renderebbe meno convenienti, per i residenti, le importazioni e al contrario più convenienti, per i non residenti, le nostre esportazioni. 

Il perché la svalutazione interna in un'unione monetaria sia invece necessaria, Mario Draghi, ce lo spiega quando afferma che, dato che non è possibile realizzare gli Stati Uniti d'Europa (vedi qui l'analisi dell'economista Sapir sul suo blog) e quindi una serie di trasferimenti gratuiti di capitali, ad opera del governo, dalle regioni ricche a quelle povere dello stato, come avviene in uno stato sovrano, le economie di quei paesi che si indebitano con gli altri stati dell'Unione devono gradualmente rientrare. Cioè devono pagare i loro debiti (in euro, ovviamente) invertendo il saldo delle partite correnti con l'estero.

Le cause dello squilibrio che provocano tutta questa sofferenza alle popolazioni colpite dalla distruzione della domanda interna sono illustrate subito dopo. Draghi ci racconta che, nel periodo precedente la crisi, sono avvenuti dei giganteschi trasferimenti di capitali in quei paesi che successivamente saranno colpiti dagli aggiustamenti (cosa per altro descritta molto bene dal suo vice qui una anno prima). In altre parole, si stavano indebitando in euro, cioè in una moneta del quale non controllano né l'emissione né il valore. Qui Mario Draghi fa riferimento al debito incamerato dal settore pubblico e privato, privandoci tuttavia di un dettaglio molto importante per stabilire le responsabilità della crisi. Infatti, al contrario del suo vice, non si sofferma sul fatto che ad esplodere prima della crisi, in Italia, come negli altri paesi maggiormente colpiti da essa, è stato più che altro il debito privato e non quello pubblico che invece stava diminuendo (in percentuale al PIL) come mostra il grafico seguente.

Si osservi come, nel periodo di riferimento, debito pubblico e privato italiano viaggino secondo una dinamica, per ampi tratti, opposta . Ad un calo del debito pubblico durante la seconda parte degli anni novanta si oppone un incremento del debito privato, che è quello che intende Draghi con: <<giganteschi trasferimenti di capitali>> . La crescita del debito privato è andata in parallelo con quella del debito estero (vedi qui). Dall'applicazione delle politiche di austerità, invece, in coerenza con l'aggiustamento del saldo delle partite correnti con l'estero, ricomincia a correre il debito pubblico mentre diminuisce quello privato in quella che è stata una vera e propria operazione di socializzazione delle perdite. 

Infine Mario Draghi ci spiega qual è la lezione che abbiamo imparato dalla crisi. Cioè, come possiamo evitare che tutto questo si ripeta. In pratica, per impedire che alcuni paesi dell'Unione perdano competitività nei confronti degli altri, e pertanto incamerino troppi debiti, va impedito che gli stipendi e i prezzi crescano più velocemente rispetto a quelli del resto della zona euro. Questo significa che, secondo la BCE, quei paesi che hanno subito la svalutazione interna dovranno mantenere le politiche di austerità a tempo indeterminato per impedire che ripartano i consumi e quindi, per la legge della domanda e dell'offerta, anche l'occupazione, gli stipendi e i prezzi. Questo significa che se avete perso il lavoro sarà per voi più difficile trovarne un altro. Cosa confermata anche dall'On. D'Attorre (ex PD), ospite a Omnibus su La7, in questo video .

In pratica, governi italiani privilegiano le richieste dei creditori esteri rispetto al nostro diritto costituzionale al lavoro. Ora lo sapete, e ne avete anche le prove.

venerdì 31 marzo 2017

La spesa pubblica italiana è la più sostenibile d'Europa

C'è un documento che la Commissione Europea redige allo scopo di stabilire la sostenibilità di lungo periodo della spesa pubblica dei paesi aderenti alla UE. Si intitola Fiscal Sustainability Report

A pagina 70 del rapporto 2015 c'è un paragrafo che si intitola "Risultati degli indicatori di sostenibilità nel lungo termine". Include l'analisi di un indicatore (chiamato S2) che mostra le eventuali correzioni necessarie alla spesa pubblica per stabilizzare il debito in un orizzonte temporale di lungo periodo tenendo conto dei maggiori costi dovuti all'invecchiamento della popolazione. 

A pagina 72 c'è un grafico (numero 4.7) che mostra la sostenibilità della spesa pubblica in base ai due fattori sopraccitati: 
  1. sull'asse delle ascisse (quello orizzontale) la posizione fiscale: essa è favorevole per i puntini che si trovano nel quadrante a sinistra e sfavorevole in quelli che invece sono a destra
  2. sull'asse delle ordinate (quello verticale) i costi legati all'invecchiamento della popolazione: la posizione è favorevole per i puntini che si trovano in basso e, al contrario, sfavorevole in quelli che invece sono in alto.
Pertanto, i paesi con la spesa pubblica più sostenibile sono quelli che si trovano in basso a sinistra, sotto la sottile linea rossa che divide obliquamente il grafico.

Se gli date un'occhiata scoprirete che l'Italia è quella messa meglio. Questo è, in sintesi, il giudizio di sostenibilità della nostra spesa pubblica espresso dalla Commissione Europea: 

<<L'Italia, al contrario, si trova nel quadrante in basso a sinistra con entrambi i costi previsti per l'invecchiamento e per la posizione fiscale iniziale che non comportano sfide riguardo alla loro sostenibilità nel lungo termine>>   

Capito? La Commissione Europea è lieta di informarci che l'Italia ha la spesa pubblica più sostenibile dell'intera Unione Europea. Al contrario, alcuni paesi cosiddetti virtuosi come: Germania, Lussemburgo, Belgio e Olanda si trovano tra i "cattivi". I primi due prevalentemente a causa del rapido invecchiamento della loro popolazione, mentre gli altri due principalmente a causa della loro pessima posizione fiscale di partenza.

Ma non ci avevano detto che la spesa pubblica è troppo alta, che l'Italia fallirà, e che non riceveremo mai la nostra pensione?! Leggere e documentarsi aiuta a non farsi incantare dai soliti luoghi comuni. E il bello è che c'è sempre qualcosa di nuovo da imparare.


giovedì 16 febbraio 2017

La barzelletta della crescita del PIL maggiore del previsto (non fa ridere)

Forse, in questi giorni, vi sarà capitato di leggere sul vostro giornale o di sentire alla TV che dati Istat sulla stima preliminare del prodotto interno lordo (il PIL) 2016 riportano una crescita maggiore del previsto.





Le stime Istat calcolano una crescita reale del PIL 2016 pari allo 0,9%, mentre le ultime previsioni del governo, pubblicate sulla nota di aggiornamento al DEF 2016 dello scorso settembre, indicano un aumento dello 0,8%. Quindi, in effetti, sembrerebbe che i media mainstream riportino la notizia correttamente. Invece non è così.

Tanto per cominciare il DEF 2016, in origine, riportava una crescita programmata del PIL reale pari all'1,2%, che solo successivamente è rivista al ribasso nella nota di aggiornamento di settembre che stimava una crescita del solo 0,8%. 

Fonte: nota di aggiornamento DEF 2016
Inoltre, la nota di aggiornamento al DEF 2015 (quello dell'anno precedente) prevedeva per il 2016 una crescita ancora più alta, 1,6%. Quasi il doppio rispetto al risultato effettivamente conseguito. Insomma, come avete avuto modo di capire in queste poche righe, non è che questo dato dell 0,9% sia poi così brillante, soprattutto se si considera il fatto che l'Italia è il paese che cresce meno in Europa

C'è infine un dettaglio tecnico che ai più è sfuggito. Il dato reale del PIL è la somma fra la crescita nominale e la variazione dei prezzi. Sempre il DEF 2016 prevedeva un'inflazione programmata dello 0,2%. Tuttavia, essendo l'Italia nel 2016 in deflazione (la variazione dei prezzi è stata negativa del -0,1%) il suo contributo alla crescita  reale è stato positivo anziché negativo come previsto (e come normalmente accade). In pratica, il dato del PIL reale 2016 risente favorevolmente anche del calo dei prezzi, a sua volta causato dalla bassa domanda di consumi.

Comunque, alla fine, questa discussione sul PIL sta diventando veramente puerile. Non solo perché si parla di frazioni di percentuali insignificanti ma soprattutto perché le cause della mancata crescita sono arcinote e, in questo quadro macroeconomico di cambi fissi, è inutile farsi illusioni.