lunedì 30 marzo 2015

Quando finirà la crisi?

Quando finirà la crisi? Questa è la domanda che si fanno tutti gli italiani, soprattutto quelli disoccupati o con un posto di lavoro precario. Negli ultimi anni abbiamo sentito sempre la stessa storia, quella della luce fuori dal tunnel e dell’anno successivo che sarebbe stato quello buono. Per il 2015 è attesa una debolissima crescita. Ma, basta un inversione di segno nell'andamento del PIL per poter dire di essere davvero fuori dalla crisi?

Rainews 25 marzo 2015
Supponiamo per un momento che abbiate perso il lavoro a causa di un licenziamento ingiusto, cosa che tra l’altro sarà sicuramente capitata a qualcuno di voi. Per far valere i vostri diritti vi rivolgereste a un giudice che con la solita celerità (si fa per dire) nel giro di quei due o tre anni vi farà reintegrare in azienda. Naturalmente, a causa delle novelle legislative (mi riferisco al contratto a tutele crescenti) questo esempio è diventato obsoleto, ma prendiamolo per buono almeno a livello ipotetico. Il giudice, imponendo all'imprenditore di riassumervi ripara a un torto che avete subito. Da quel momento tornerete a lavorare, e a ricevere il vostro stipendio, e  la sentenza avrà soddisfatto quello che in linguaggio giuridico si chiama il danno emergente

Tuttavia, delle persone come voi, fiere e consapevoli dei propri diritti, non si accontenterebbero di ciò. Infatti, la privazione dello stipendio per tutto quel tempo vi avrà causato notevoli grane. Sarete presumibilmente indietro con il pagamento di diverse bollette: affitto/mutuo, rate della macchina, etc. etc.. Se la legge (quella vecchia, ovviamente) non prevedesse anche il risarcimento del periodo in cui siete rimasti senza entrate a causa del licenziamento illegittimo, voi passereste dei mesi a pagare gli arretrati, e non potreste ritenervi pienamente soddisfatti della sentenza. Per questo, il giudice è tenuto valutare anche il lucro cessante che, va da sé, è pari a quella somma di cui non avete potuto godere durante il periodo di "vacanze forzate".

Questa premessa serve a introdurre il seguente ragionamento. Durante il periodo di crisi l’Italia ha perso circa un 9% del PIL. Un inversione di tendenza, per ovvi motivi, non può rappresentare l’uscita dal tunnel. Il buon senso suggerisce che prima di poter dire essersi buttati alle spalle quel brutto periodo si aspetti almeno di raggiungere i livelli precedenti al disastro.


Ma anche questo non sarebbe sufficiente. Infatti, come nel nostro esempio precedente, per poter dire di essere ritornati sul vecchio sentiero di crescita occorrebbe recuperare anche tutti i mancati guadagni patiti durante il periodo di magra.

Nel seguente grafico mi sono divertito a stimare il tempo di recupero del PIL italiano (a valori nominali, quindi senza considerare l’inflazione) secondo le seguenti ipotesi:
  • la media a cui sarebbe cresciuto il PIL (linea tendenziale tratteggiata in blu) è quella dei 10 anni che hanno preceduto la crisi (1997-2007) cioè il 4,40%;
  • la crescita prevista del PIL italiano del 2015 e del 2016 si ispira liberamente alle stime fatte dall’OCSE su crescita e inflazione, e per gli anni successivi ho inserito dei valori assolutamente arbitrari frutto della speranza di trovarsi in una situazione simile a quella degli anni buoni a cavallo fra gli ottanta e novanta del novecento.
La tabella mostra i dati utilizzati nel precedente grafico. La colonna "distanza" misura la differenza tra il PIL previsto durante il recupero e quello tendenziale, dato dalla media della crescita nominale del decennio che ha preceduto la crisi (1997-2007), e mostra un completo recupero entro l'anno 2027.
Il calcolo così eseguito prevede che l'Italia recuperi il tempo perso non prima del 2027. E stiamo sempre e solo parlando di valori nominali! Si tratta, ovviamente, di un grafico che non ha alcun valore scientifico. Infatti l’obiettivo non è fare una previsione, ma mostrarvi semplicemente quanto sarebbe lunga la strada della completa ripresa pur in presenza di una crescita assolutamente ottimistica, e fuori dalla portata di tutte le attuali più rosee previsioni. Questo significa che in pratica, ad oggi, in attesa di un cambio strutturale (o di un miracolo) non è assolutamente ipotizzabile un completo recupero dell’economia nemmeno nei prossimi dieci, o quindici, anni.



lunedì 23 marzo 2015

Le aree valutarie ottimali di Robert Mundell

Questa settimana ci occupiamo di un altro economista insignito del premio Nobel Robert Mundell e del suo celebre articolo sulle aree valutarie ottimali pubblicato nel settembre 1961 sulla rivista scientifica The American Economic Review (qui).

Le prime quattro righe sono già sufficienti a spiegare la crisi dell’eurozona:

<<It is patently obvious that periodic balance-of-payments crises will remain an integral feature of the international economic system as long as fixed ex-change rates and rigid wage and price levels prevent the terms of trade from fulfilling a natural role in the adjustment process>>

In poche parole Mundell ci dice ciò che per lui, e per tanti economisti era (ed è) assolutamente ovvio, ovvero che un  mercato unico sarà caratterizzato da periodiche crisi di bilancia dei pagamenti fino a quando i cambi fissi (e l’euro in economia è assimilabile a un cambio fisso), la bassa crescita degli stipendi e dei prezzi, ne impediranno il suo naturale assestamento. 

Se non fosse chiaro a cosa si riferisce Mundell sarà sufficiente osservare il seguente grafico:


Il grafico mostra il crollo della bilancia commerciale italiana avvenuto a seguito dell'introduzione dei cambi irrevocabili obiettivo stabiliti nel 1996 (che hanno poi generato l'euro dal primo gennaio 1999) fino al momento in cui le politiche di austerità non l'hanno riportata in surplus.

Chi afferma che l’euro non ha niente a che vedere con la crisi non ha capito di che cosa sta parlando, oppure è in mala fede.

Mundell afferma che la condizione ottimale affinché un mercato si possa dotare di una moneta unica è che all’interno di essa si creino le condizioni in cui i fattori produttivi, che in economia sono capitale e lavoro, siano perfettamente mobili. E cioè che non ci siano barriere di alcun tipo che ne impediscano lo spostamento da una parte all’altra della nostra area valutaria alla ricerca delle migliori opportunità d’investimento e di lavoro.

L’Unione Europea, ovviamente, possiede questa condizione di perfetta mobilità del fattore lavoro  solo sulla carta. Un esempio banale ma efficace sono le barriere linguistiche che, ad esempio, impediscono a molti di leggere il suddetto articolo di Mundell a causa della poca dimestichezza con la lingua inglese. Indipendentemente dal fatto che siate, o meno, sostenitori della globalizzazione (anche solo a livello europeo) è meglio che sappiate che non tutti, purtroppo, si possono permettere di vivere in un'economia di quel tipo.  

La ricerca di un’area valutaria ottimale è un elemento utilizzato per la creazione di zone economicamente stabili dove le politiche monetarie della banca centrale possono combattere più facilmente la disoccupazione. E, secondo Mundell, sono le regioni (anche se la parola regione va intesa nel senso di territorio economicamente omogeneo e non ente amministrativo) e non i confini dei singoli paesi ad essere maggiormente adatte a tale scopo.  Pertanto, il tentativo di estendere a sempre più paesi un’unica moneta è esattamente il contrario di quello che la teoria economica suggerisce. E' quindi già un obiettivo ambizioso riuscire a far funzionare aree valutarie molto più piccole di un  intero continente.

Infatti, basti pensare che neanche paesi come l’Italia o la Germania sono considerati aree valutarie ottimali. Nonostante la migrazione da sud a nord (per il nostro paese) e da est a ovest (per la Germania) ci sono ancora enormi differenze interne. Per questa ragione, i governi centrali riequilibrano il mercato interno con enormi trasferimenti fiscali da una regione all’altra. L’economista Jacq Sapir ha calcolato quanto costerebbero tali trasferimenti di denaro, in ambito europeo, dai paesi europei virtuosi a quelli meno avanzati arrivando a stimare un 8-9% annuo del PIL. L’articolo lo potete trovare a questo link (in francese) o comodamente tradotto dal blog "Voci dall’estero" (qui). E’ chiaro che ipotizzare di estendere a livello europeo una "generosità" già mal sopportata a livello nazionale preclude oggi qualsiasi ragionevole possibilità di unione politica.

lunedì 16 marzo 2015

Il ritorno alle monete nazionali favorirebbe il processo d’integrazione europea che oggi l’euro mette a repentaglio

Una semplice lettura dell’articolo scritto nel 1957 dal celebre economista premio nobel J.E.Meade e pubblicato dalla rivista scientifica The Economic Journal, vi renderà consapevoli di quanto sia superficiale, e ideologicamente orientato, l’odierno dibattito politico sul processo d’integrazione europea basato sulle cosiddette riforme.

L’articolo, dal titolo “The balance-of-payments problems of a European free-trade area”  è disponibile per la consultazione gratuita a questo link e tratta della possibilità, di cui si iniziava a parlare in quegli anni, di stabilire un’area di libero commercio fra alcuni paesi che oggi fanno parte dell’Unione Europea. Va come prima cosa notato che era perfettamente noto agli economisti, già prima degli anni cinquanta, il problema del rischio degli squilibri della bilancia commerciale fra paesi, in particolar modo all’interno di un’area di libero scambio internazionale (come quella rappresentata dall’Unione Europea, e soprattutto dall’eurozona). Tenendo conto di questo problema, Meade individuò almeno cinque possibilità di gestione di una futura area di libero scambio continentale (riferendosi, per ovvi motivi storici, a quella che allora veniva considerata l’Europa occidentale):
  1. approccio della liquidità
  2.  metodo del gold-standard
  3. criterio dell’integrazione
  4. sistema del controllo diretto
  5. struttura a cambi flessibili

Poiché non voglio rovinarvi il gusto della lettura, vi riepilogo brevemente  in cosa consistono i suddetti differenti sistemi.

Il primo, liquidity approach, consiste nella concessione di risorse finanziare da parte dei paesi con la bilancia commerciale in surplus, a quelli in deficit. In effetti, questo è ciò che è avvenuto nell’area euro dal momento della sua istituzione fino al blocco dei finanziamenti dovuto alla crisi finanziaria. Vicenda magistralmente illustrata dal vice presidente della Banca Centrale Europea nel suo discorso tenutosi ad Atene nel 2013.

La tabella di sinistra mostra la crescita progressiva dell'esposizione creditizia dei cosiddetti paesi virtuosi, che sono quelli con una posizione in surplus della bilancia commerciale, verso quelli in deficit. La tabella di destra mostra la stessa progressione in percentuale del PIL. Il calo è avvenuto in conseguenza del fatto che, quando è scoppiata la crisi, la fiducia dei creditori che aveva caratterizzato l'area euro fino a quel momento è venuta meno. La fonte sono le slide del discorso del vice presidente della BCE Vitor Constancio fatto ad Atene nel 2013 (qui)
Del resto, come osserva lo stesso Meade, questo approccio non può essere considerato che un accorgimento temporaneo, non adatto a risolvere gli squilibri persistenti della bilancia dei pagamenti.

Il gold-standard approach consiste nel ricorso alla svalutazione interna (a noi meglio nota come politica dell’austerità) da parte di quei paesi con la bilancia commerciale in deficit, e il contemporaneo ricorso a politiche opposte (inflazionistiche) da parte di quei paesi in surplus, con l'obiettivo di non far ricadere l’onere dell’aggiustamento commerciale solo sulle popolazioni in deficit. L'aspetto interessante sta nel fatto che Meade era convinto che questo sistema sarebbe saltato in quanto i governi (quelli di allora!) erano a suo dire giustamente devoti a perseguire politiche di pieno impiego, e non avrebbero mai accettato l’idea di perseguire l’obiettivo del libero scambio internazionale a scapito dell’occupazione.  

Questo mi ha fatto subito pensare alle parole di Romano Prodi nella sua ben nota intervista rilasciata al Financial Times nel 2001, in cui affermava che l’euro avrebbe permesso ai governi di fare delle riforme fino a quel momento impensabili, ma che sarebbero state possibili sull’onda delle conseguenze di una crisi economica.


Parole forse poco chiare ai più ma che diventarono molto più comprensibili, col senno di poi, a seguito di una successiva dichiarazione resa dieci anni più tardi da un altro dei padri nobili dell'euro, il Senatore Mario Monti, durante una trasmissione televisiva italiana poco prima di essere nominato Presidente del Consiglio: <<La Grecia è il più grande successo dell'euro>>.

Il terzo sistema, integration approach, si basa su un’autorità sovranazionale europea in grado di governare gli squilibri della bilancia commerciale tramite trasferimenti e politiche d’investimento nelle zone più arretrate d’Europa (Meade cita come esempio il meridione italiano). Pur essendo favorevole a tale soluzione Meade constata come essa sia di fatto irrealizzabile, in quanto comporterebbe il forte ridimensionamento del potere dei governi nazionali a scapito di un’autorità, che per quanto indipendente, avrebbe comunque il compito di affrontare scelte con  importanti conseguenze politiche (quali aree sostenere e quali no?). Non a caso quando la Banca Centrale Europea venne costituita le fu permesso di finanziare le banche private ma, al contempo, le fu impedito di porre in atto trasferimenti alle singole autorità nazionali.

La cura agli squilibri commerciali proposta nel direct-control approach è quella di limitare un certo tipo di importazioni/esportazioni in modo coordinato fra i paesi europei. Ovviamente, questo tipo di soluzione preclude la creazione di una vera area di libero scambio.

Per ultimo viene illustrato il metodo exchange-rate approach che poi è quello che fu realmente utilizzato fino alla costituzione di fatto della moneta unica nel 1996, quando vennero stabiliti i cambi irrevocabili tra le monete aderenti alla zona euro che poi entrarono in vigore a partire dal primo gennaio 1999. Meade sostiene, parafrasando Churchill, che questo tipo di approccio è semplicemente il peggiore possibile escludendo tutti gli altri. Esso non risolve affatto tutti i problemi ma fornisce un’arma, la svalutazione, a tutti quei paesi che si sperimentano persistenti deficit della bilancia dei pagamenti , funzionando da deterrente verso quei paesi che, al contrario, sfruttano  i vantaggi della loro posizione di surplus. Questa situazione metterebbe sullo stesso piano paesi creditori e debitori favorendo una maggiore cooperazione europea che permetterebbe, nel lungo periodo, la convergenza dei cambi delle singole monete europee senza dover incorrere in traumatici periodi forte disoccupazione (come quello che stiamo vivendo oggi). Io aggiungo che se ciò non avvenisse sarebbe un sintomo del fatto che non tutti i popoli europei sono disposti a intraprendere un vero percorso d'integrazione. E se così fosse, perché farglielo digerire per forza tramite l'euro?

Concludo questo post con un'altra mia personale considerazione. Se, come affermato da Meade, la via dell’integrazione europea sarebbe possibile solo attraverso l’uso di monete nazionali con cambi flessibili (proprio quelli che sono stati aboliti dall'introduzione della moneta unica) con quale diritto alcuni sostenitori dell’euro definiscono gli euro-scettici con l’appellativo di anti europeisti?   

lunedì 9 marzo 2015

La decrescita felice

In questi anni ho sentito spesso parlare della decrescita felice. Da quello che mi è stato spiegato, se ho capito bene, per realizzarla occorrerebbe ridurre l'orario di lavoro e di conseguenza il proprio stipendio avendo però il vantaggio di poter produrre da se alcuni beni, quindi risparmiare sull'acquisto di articoli che prima invece si doveva acquistare per mancanza di tempo (es. il pane, lo yogurt, vari prodotti agricoli, etc. etc).

Così come l'ho capita io non penso che questa strada possa essere considerata una politica economica, ma le mie opinioni non valgono, ovviamente, più di quelle di tanti altri e non posso escludere il fatto che l'autoconsumo possa un giorno diventare una realtà diffusa della nostra società. Intendiamoci, sono sensibile anch'io ai temi ecologici, e non penso affatto che questo pianeta vada distrutto in nome del consumo. Tuttavia, chi si lamenta della crescita senza fine del PIL, forse dimentica che la produzione non è solo quella industriale. Il PIL non è composto solo da macchine inquinanti, o dal disboscamento delle foreste, esistono anche i servizi. Inoltre, l'avanzamento tecnologico dovrebbe servire proprio a rendere meno dannosi per l'ambiente alcuni processi produttivi.

Niente di male a fare delle leggi che in qualche modo orientino le scelte degli investitori, e degli imprenditori, verso un'economia più sostenibile nel lungo periodo. Ma nonostante tutte le giuste critiche che il nostro sistema economico merita, anche a causa dell'eccessiva specializzazione del lavoro, credo che la volontà di sostituirlo con un sistema improntato sull'autoproduzione non sia un'idea lungimirante. Escludendo dal giudizio, ovviamente, qualsiasi tipo di sacrosanta scelta personale. e quindi per sua natura non sistemica.

C'è poi una certa somiglianza tra il concetto di  decrescita felice e quello di austerità. Infatti, quello che essa propone in concreto è il risparmio, cioè la stessa cosa che accomuna qualsiasi politica di riduzione dei consumi (come quella in atto). E' per questo che una parte di coloro i quali sono a favore della decrescita felice non capiscono il problema dell'euro, e ammoniscono contro l'uscita dalla moneta unica, in quanto renderebbe più facile l'aumento della spesa pubblica ai nostri governanti (e quindi l'aumento della domanda interna).

Queste persone sostengono che l'uscita dall'euro provocherebbe l'aumento spropositato dell'indebitamento, pubblico naturalmente, perché essi concentrano le loro analisi solo su quello, dimenticando che esiste anche il debito privato (che in questi anni è cresciuto parecchio). A loro dire il politico, nel tentativo di accaparrarsi voti, sarebbe portato a spendere, e gli elettori gli andrebbero dietro perché penserebbero solo al loro vantaggio nel breve periodo. Perché, secondo loro, la gente comune (cioè io, o tu che stai leggendo) non siamo in grado di comprendere le conseguenze dello spreco in un orizzonte temporale più ampio.

Ora, a parte il fatto che per tutto il tempo in cui il popolo italiano si è governato da solo, senza il guinzaglio imposto dall'euro, il debito pubblico è esploso solo perché un ministro ha deciso dal 1981 di vendere i titoli dello stato ai tassi più alti, decisi dal mercato (vedi divorzio della Banca d'Italia). Poi, la spesa pubblica sarebbe sotto controllo almeno dal 1991, anno in cui abbiamo realizzato per la prima volta l'avanzo primario, ovvero le entrate meno spese, senza considerare i costi per gli interessi sul debito pubblico che purtroppo erano alti proprio a causa di quanto detto sopra riguardo al "Divorzio". Quindi, non è che queste previsioni catastrofiche sulla spesa pubblica siano poi così fondate.

Tutto questo ci porta al nocciolo della questione.

La strada della decrescita felice sarebbe preclusa tornando alla lira? Se così fosse, non sto implicitamente ammettendo che non sarebbe la scelta della maggioranza degli italiani? E allora, se io gliela impongo tramite l'euro, non sto adoperando esattamente lo stesso sistema di chi è convinto di fare il nostro bene solo quando è lui a scegliere per noi? Non sto pertanto affermando che gli italiani non sono in grado di decidere da soli e che debbano perciò essere indirizzati da un'élite di illuminati? Allora, mi spiegate che differenza c'è tra questa gente e quella del Bilderberg, della Trilateral Commission, del Council of Foreign Relations, e della Troika?
 


lunedì 2 marzo 2015

La riunificazione delle due Germanie spiegata dal Prof. Vladimiro Giacché

La caduta del muro di Berlino ha lasciato un ricordo indelebile nella mente di chi era già abbastanza grande da rendersi conto di cosa stava succedendo quel giorno di novembre del 1989. Ma cosa sappiamo dei giorni successivi, soprattutto quelli che seguirono la riunificazione della Germania?

Il Professore Vladimiro Giacché, nel suo libro "Anschluss l’Annessione", ci fa tornare indietro negli anni novanta, e ci racconta la riunificazione tedesca mediante una sequenza di fatti, testimonianze, e dati davvero impressionanti per chi fosse rimasto fermo al luogo comune della generosità dell’ovest verso i fratelli dell’est.

Infatti, i perni della riunificazione, secondo l’autore, sono stati: l’unione monetaria, l’istituzione dell’ente a cui venne dato il compito di privatizzare l’economia della ex DDR ( laTreuhandanstalt), e la pretesa da parte delle banche di ottenere il pagamento dei “vecchi debiti” che le imprese dell’est avevano nei confronti dell’ex stato socialista.

Ma andiamo con ordine.

Con la “concessione” del marco ai tedeschi dell’est, e la conseguente spropositata rivalutazione dei prezzi interni, dal tramonto all'alba, le imprese orientali perdettero gran parte delle esportazioni verso gli altri paesi del blocco comunista. Inoltre, la quasi totalità dei prodotti della ex DDR finirono fuori mercato a causa della maggiore competitività di quelli dell’ovest che, essendo rimasti con la loro moneta, non avevano subito nessuna perdita di competitività. Questo ha causato nei lander orientali il collasso dell’intero sistema produttivo, e una disoccupazione che ancora oggi è più di quella dell’Ovest.

La Treuhandanstalt, ovvero l’ente che si è occupato della privatizzazione dell’intera economia di uno stato (la ex Repubblica Democratica Tedesca) ha rappresentato un buco nero di spreco di denaro pubblico, truffe ai danni dei lavoratori, scandali, svendite di imprese e terreni. Un vero e proprio saccheggio che mal si coniuga con la presunta efficienza teutonica, e che fa impallidire persino le peggiori vicende economico giudiziarie italiane.

Dopo la loro privatizzazione, le banche dell’est (acquisite a prezzi ridicoli da quelle dell’ovest) hanno aumentato i tassi d’interesse e preteso il pagamento, da parte delle imprese della ex DDR, dei debiti maturati durante il periodo socialista. Queste somme, pur essendo erogate dalle banche, erano di fatto sempre state considerate alla stregua di partite di giro, ovvero dei finanziamenti a fondo perduto da parte dello stato, che nel sistema socialista deteneva la proprietà di tutti i mezzi di produzione, comprese le banche.

Il libro racconta come le politiche imposte ai lander orientali abbiamo trasformato quelle regioni che, per quanto più arretrate dell'ovest, erano comunque sede di importanti complessi industriali, in un'area depressa, abitata da mano d'opera a basso costo funzionale al consumo di prodotti dell'ovest, il cui acquisto è ampiamente finanziato tramite la spesa pubblica. Una vicenda non molto differente da quella raccontata in un altro libro che consiglio vivamente di leggere, “Terroni” di Pino Aprile che racconta la questione meridionale nel nostro paese.

Infine, Vladimiro Giacché mostra come vi sia un parallelismo inquietante tra le politiche imposte all'ex Germania Est e quelle che oggi vengono “suggerite” ai paesi mediterranei in crisi dopo un’altra unione monetaria, quella dell’euro

Quanto sopra riportato, ovviamente, non è che una piccola parte di una storia in cui si racconta come i vincitori dell'ovest, sulla base del loro senso di superiorità, si siano ostinati nel voler cancellare ogni minima traccia della cultura dei vinti dell'est. E’ il racconto di come un’intera popolazione sia stata prima illusa, poi derubata, e in molti casi anche umiliata e punita, sulla base della propria appartenenza ad un regime ormai sconfitto. Di fatto, un’annessione. Come vi sentireste infatti voi, se oltre al lavoro, vi togliessero anche il vostro titolo di studio, o se veniste condannati per fatti precedenti la seconda guerra mondiale? 

Buona lettura.