lunedì 28 novembre 2016

Referendum costituzionale - perchè per cambiare serve un no

Oggi sull'autobus ascoltavo una signora mentre parlava con un amico. Sosteneva, a proposito del referendum del prossimo 4 dicembre, che alcuni sono contrari proprio a tutto e che sanno dire solo no. Credo che abbia ragione. Comunque, spero che tali soggetti siano di più di quelli che, al contrario, pensano che sia sempre meglio dire di sì. Non facciamoci illusioni, tante persone votano per partito preso e non sentono il bisogno di approfondire gli argomenti. Del resto, neppure io che provo ad informarmi posso sostenere di possedere la piena consapevolezza riguardo alla mia scelta. Con lo studio e la corretta informazione si può però arrivare, quantomeno, ad esprimere in modo articolato le proprie idee.

Le riforme che la popolazione italiana ha subito in questi anni sono dettate dall'Europa. Credo che sia chiaro a molti. Per quanto riguarda la riforma costituzionale è il governo stesso, nel documento di presentazione del disegno di legge alle camere, a dichiarare che la riforma serve ad <<adeguare l'ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea>>.


La volontà del governo sembra richiamare un documento della società di consulenza JP Morgan del 2013, e cioè il fatto che la nostra costituzione, così com'è, non è adatta ad un'ulteriore integrazione europea.


L'articolo70 della costituzione, così come modificato dalla riforma, dispone che una delle funzioni delle camere sia l'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione Europea.





Secondo l'opinione dell'economista Massimo d'Antoni (su suggerimento del costituzionalista Luciano Barra Caracciolo) il rischio è che i famosi "compiti a casa" che ci invia periodicamente Bruxelles diventino un obbligo costituzionale, e non la semplice conseguenza dell'appartenenza dell'Italia a un trattato internazionale eventualmente rinegoziabile, o addirittura ripudiabile.

Tra l'altro, si da il caso che le letterine che riceviamo dall'Europa siano spesso già in contrasto con la prima parte della costituzione stessa (che, per altro, non è mai stata modificata). Ovvero contro il principio secondo cui l'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro (do you remember?) che applicato all'economia significa che il governo si dovrebbe impegnare a varare delle politiche volte alla piena occupazione, invece che all'austerità e alla protezione della moneta unica. E per chi non lo sapesse, le due cose (piena occupazione e difesa dell'euro) sono in contrasto fra loro.

Per ironia della sorte, quindi, quelli che credono che #bastaunsì per cambiare rischiano di dare il loro avallo a una riforma che, invece è perfettamente in linea con le più disastrose scelte politiche degli ultimi anni.


lunedì 21 novembre 2016

Chi aveva previsto la vittoria di Trump?

In democrazia vince la maggioranza, questo è ovvio. Altrettanto naturale è che essa, la maggioranza in quanto tale, difficilmente possa essere composta dalle menti più brillanti di un paese. A far pendere il piatto della bilancia, da una parte o dall'altra, è sempre il voto degli umili. Succede sempre, quando prevalgono le nostre idee ma anche quando questo non accade. Una maggiore consapevolezza di ciò dovrebbe convincerci ad essere meno snob.

Ho letto diverse analisi sulle presidenziali USA, tutte più o meno concordanti sul fatto che Trump sia riuscito a sfruttare l'ondata di malcontento che attraversa l'America (e non solo). Per quello che conta, quest'interpretazione è abbastanza coerente con l'opinione che mi sono fatto pure io. Non sarei in grado di fare un'analisi approfondita del valore politico dei due candidati, o di fare previsioni su quanto accadrà ora, però, dato che il risultato ha sorpreso molte persone (incluso me) ho ritenuto che fosse interessante mettervi a conoscenza del lavoro di uno storico che aveva previsto sia la vittoria di Trump che quella di altri presidenti in passato.

The Keys to the White House di Allan Lichtman, professore della facoltà di storia della American University di Washington D.C., è un sistema che si basa su 13 affermazioni. Quando 5, o meno, di esse comportano una risposta falsa (o negativa) vincerà il candidato del partito al governo. Se invece 6, o più, sono false prevarrà quello dell'opposizione.
  1. Nelle ultime elezioni, il partito del presidente ha guadagnato deputati rispetto alle precedenti elezioni di metà mandato 
  2. Non c'è stata una serrata competizione per la nomination del candidato da parte del partito di cui fa parte l'attuale presidente
  3. Il candidato è il presidente in carica 
  4. Manca la presenza di un forte candidato indipendente alle elezioni presidenziali (con almeno il 5% dei consensi)
  5. L'economia non è in recessione durante la campagna elettorale
  6. La crescita del PIL pro capite durante l'ultimo mandato presidenziale è stata maggiore o uguale a quella dei due mandati precedenti
  7. L'amministrazione in carica ha varato importanti riforme durante gli ultimi 4 anni 
  8. Non si è verificata una forte instabilità sociale durante l'ultimo mandato
  9. L'amministrazione in carica non è stata colpita da scandali importanti
  10. L'amministrazione in carica non ha subito importanti sconfitte militari o di politica estera
  11. L'amministrazione in carica ha raggiunto importanti obiettivi militari o di politica estera 
  12. Il candidato del partito del presidente in carica è ritenuto un leader carismatico o un eroe nazionale 
  13. Il candidato del partito avversario a quello del presidente in carica è ritenuto un leader carismatico o un eroe nazionale
Nel caso delle passate elezioni il Prof. Lichtman ha considerato false, o negative, le seguenti sei affermazioni: 1-3-4-7-11-12. Tanto sarebbe bastato alla Clinton per perdere.

Esiste anche un metodo matematico che calcola i consensi che otterrà il partito del presidente in carica in base alle risposte affermative (che nel nostro caso sono sette: 2-5-6-8-9-10-13) e a un insieme di valori calcolati sulle serie storiche delle passate elezioni. La formula è la seguente:

V = 37,2 + 1,8 x 7 (affermazioni vere) = 49,8% dei consensi al candidato del partito del presidente in carica (e quindi 50,2% al candidato sfidante, in questo caso Trump).

Secondo Wikipedia, il sistema del Prof. Lichtman ha previsto correttamente il risultato delle elezioni presidenziali a partire dal 1984. E' vero che alcune delle affermazioni sopra elencate, come quelle sul carisma dei candidati, possono essere frutto di interpretazioni soggettive ma alla maggior parte di esse si può rispondere in modo preciso. Quindi, se anche voi non siete riusciti ad indovinare il candidato vincente, ricordatevene alle prossime elezioni.

lunedì 3 ottobre 2016

La polemica sul prelievo fiscale al 64,8%

In data 31 agosto, il Sole24Ore ha pubblicato un articolo che conteneva una tabella (figura 1) che ha fatto molto discutere, e che conteneva due dati:
  1. la percentuale di prelievo fiscale sugli utili aziendali (corporate tax rate)
  2. la percentuale di prelievo fiscale complessiva sulle società (total tax rate)
Sul primo dato non c'è molto da dire, anche perché il prelievo fiscale sugli utili, in Italia, è in linea con quello di altri grandi paesi industriali (Italia 31,4%, Francia 36,6%, Germania 29,8%, USA 35%).

Invece, la percentuale di prelievo complessiva, che in Italia è più alta che in tutti gli altri paesi della tabella, ha provocato molte polemiche. Come prima cosa però occorre osservare che il total tax rate, pubblicato dalla Banca Mondiale, è un rapporto tra due grandezze. Pertanto, come succede anche nelle relazioni umane, il risultato è influenzato da entrambi i termini. Da una parte (a numeratore) ci sono le tasse pagate e dall'altra (a denominatore) i profitti complessivi (figura 2). Questa premessa è importante se consideriamo il fatto che, nel total tax rate, tra le tasse pagate non ci sono solo quelle sui profitti (ovvero l'Ires che in Italia ha un'aliquota del 27,5%, che nel 2017 si ridurrà al 24%) ma anche (e non solo) i contributi sociali che si pagano sul reddito dei lavoratori, e non su quello della società. E' quindi possibile che quella percentuale del 64,8% dipenda anche dal fatto che in questi anni di crisi, in Italia, i profitti delle società siano stati piuttosto esigui.

Relativamente alla polemica scoppiata sui contributi, ci sarebbe anche un'osservazione da fare. Infatti, nel nostro sistema pensionistico, quello contributivo, ciò che l'azienda versa è alla base del calcolo della nostra futura pensione. Una riduzione dei contributi porterebbe, come conseguenza, delle pensioni più basse che, a loro volta, causerebbero un calo dei consumi e minori profitti aziendali (per l'ovvio principio per cui chi non guadagna non spende). Questo, non sarebbe un elemento a favore dell'abbassamento del total tax rate.

Vorrei terminare invitandovi a osservare (come avevo già fatto qui) che, nonostante alcuni luoghi comuni persistano, in Italia il costo orario del lavoro, comprensivo del costo dei contributi, non è più alto di quello della media dell'eurozona (figura 3). Se il governo volesse comunque abbassarlo per favorire la ripresa economica (ma non vuole, vedi figura 4), sarebbe più saggio diminuire l'imposta sul reddito (Irpef) al posto dei contributi sociali.

Figura 1: la tabella pubblicata sul Sole24Ore contenente le percentuali di tassazione sulle società. Fonte: www.infodata.ilsole24ore.com
Figura 2: come spiega il sito della Banca Mondiale, il total tax rate è considerato <<as a share of commercial profits>> ovvero come percentuali dei profitti commerciali. Fonte: World Bank (per visualizzare la metodica di calcolo del total tax rate cliccare details). Tra l'altro, il grafico della World Bank indica come questo valore sia in diminuzione rispetto al 2005 quando era al 76,7%, il che indica che il rapporto fra tasse e profitti, in questi anni, nonostante tutto, è più favorevole che in passato per le società.


Figura 3: Il costo orario del lavoro in Italia è di poco sotto la media dell'eurozona (EA-19) e il costo delle componenti diverse dallo stipendio, tra cui i contributi, e di poco sopra la media. Fonte: Eurostat
Figura 4: Il ministro Padoan ammette che sono state le politiche d'austerità volute dal governo a bloccare la crescita. Se volete sapere perché l'hanno fatto, qui troverete l'amara verità


lunedì 19 settembre 2016

Ciampi e il debito pubblico

La qualità di un'informazione si valuta considerando due elementi: correttezza e completezza.

Per quanto riguarda la correttezza, è raro leggere affermazioni completamente errate. Più problemi comporta la completezza. Di seguito troverete un tweet dell'On. Ichino (PD) che vi invito a leggere.


La frase è sostanzialmente corretta, tenendo conto che si tratta di un tweet, ma nello stesso tempo è talmente incompleta da risultare fuorviante. Personalmente, la considero addirittura provocatoria. Ora vi spiegherò perché.

Il grafico qui sotto rappresenta l'andamento del debito pubblico italiano, in rapporto al prodotto interno lordo, dal 1970 ad oggi. Per ricostruire i dati dal 1970 al 1979, dal momento che non sono disponibili ne sul database della Banca d'Italia (che arriva al 1980) ne su quello dell'OCSE (che arriva al 1995) ho preso i valori sul PIL nominale dall'archivio ISTAT, e quelli del debito pubblico dalla pubblicazione "Il debito pubblico dall'unità ad oggi". I dati successivi al 1979 sono di Banca d'Italia. Ho evidenziato i periodi in cui il defunto presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi è stato rispettivamente: governatore di Banca d'Italia e politico con vari incarichi di governo (presidente del consiglio 1993-1994, ministro del bilancio e poi del Tesoro 1996-1999 ed infine presidente della Repubblica 1999-2006).


La frase dell'On. Ichino si riferisce al periodo in cui Carlo Azeglio Ciampi era ministro quando, in effetti, il debito pubblico diminuì. Tuttavia, negli anni in cui, sempre il defunto, era alla guida della nostra banca centrale esso raddoppiò. Al rapido incremento del debito pubblico, certamente, contribuì l'avvenimento noto come "divorzio fra ministero del Tesoro e Banca d'Italia" (di cui ho già scritto). Esso sancì l'indipendenza della banca centrale che, da allora, non fu più costretta a comprare i titoli di stato in eccesso (invenduti) che il ministero del Tesoro immetteva sul mercato. Questo comportò un aumento dei tassi d'interesse che lo stato, cioè noi contribuenti, abbiamo pagato agli investitori. Come conseguenza di ciò, risorse che il governo avrebbe potuto destinare ai servizi, e quindi a favore di più bisognosi, vennero utilizzati per il pagamento delle rendite di coloro i quali possono permettersi di risparmiare e investire (primi fra tutti le banche).

Ad ammettere le conseguenze del cosiddetto "Divorzio" fu lo stesso ex ministro Beniamino Andreatta cioè colui il quale decise, insieme all'allora governatore Ciampi, questo cambiamento di portata storica.

<<Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l'escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale>> (Beniamino Andreatta - IlSole24Ore 1991).

Ricordare correttamente le scelte di un personaggio passato a miglior vita non c'entra niente con la mancanza di rispetto per i morti. Il rispetto del dolore di familiari e amici, non va confuso con i fatti storici. Perché, con le scorrettezze, le bugie, o le mezze verità, non si rispetta la memoria dei defunti e neanche quella dei vivi.

Per concludere il discorso sulla completezza dell'informazione, vi devo avvertire che anche questo post è incompleto. Ci sarebbero ancora tante cose da aggiungere sull'argomento. Chi vuole capire deve approfondire sempre di più.

lunedì 25 luglio 2016

Perché le banche italiane sono in crisi?

Questo post nasce dalla lettura dei seguenti articoli che suggerisco anche a voi:
  1. la crisi delle banche italiane in un grafico (tradotto da un intervento dell'economista danese Lars Christensen specializzato in economia internazionale, mercati emergenti e politiche monetarie);
  2. Italy doesn't have a banking crisis; it has a euro crisis (pubblicato da marketwatch.com);
  3. Quanto costa comprare il tempo (dell'economista italiano Alberto Bagnai, che non ha bisogno di presentazioni).
L'economista internazionale Lars Christensen, in un suo recente intervento, ha proposto un grafico che mostra l'andamento opposto fra il crollo della crescita del PIL italiano, rispetto al periodo precedente la crisi, e l'esplosione delle sofferenze bancarie (che gli economisti chiamano non performing loans che si abbrevia NPL).

Io ho provato a rifare lo stesso grafico prendendo i dati del PIL nominale italiano (dati Eurostat), calcolando una crescita media annua del decennio che precede la crisi del 2007. Tale media corrisponde al 4%. Quindi, ho disegnato una linea, di colore blu, che mostra lo scostamento che è avvenuto tra la traiettoria del 4% e la crescita effettiva. Questa linea descrive la mancata crescita.

Poi sono andato sul sito di Banca d'Italia e ho scaricato i dati dei NPL (non performing loans, o sofferenze bancarie) relativi allo stesso periodo. Si tratta dei soli dati riferiti a imprese del settore finanziario e famiglie ma, come vedremo, ancorché i dati che ho preso non corrispondano al totale dei NPL (ma solo a gran parte di essi) il risultato non cambia. Ho messo sotto forma di percentuale del PIL i dati suddetti (ovviamente, del PIL nominale effettivo) e ho tracciato una linea di colore rosso che rappresenta l'andamento dei NPL nel periodo oggetto di osservazione. Ecco qui:


Leggendo l'articolo originale potrete osservare come l'andamento delle linee del mio grafico siano perfettamente in linea con quelle di Lars Christensen. Attenzione solo al fatto che il colore delle mie linee è invertito rispetto al suo.

Il grafico mostra come ad una mancata crescita della nostra economia, avvenuta a causa della crisi post 2007, è corrisposta una vera e propria impennata dei crediti bancari in sofferenza. In pratica è successo che, con la riduzione dei consumi, le imprese che hanno chiuso e i lavoratori che hanno perso il posto, progressivamente, non sono più riusciti a ripagare i prestiti contratti con le banche.

Qui sotto, potete apprezzare la correlazione matematica tra le suddette variabili (crisi e sofferenze) che, secondo Excel, è pari all'86%, il che sembra essere, decisamente, qualcosa più di una mera coincidenza.


Ovviamente, questo non dimostra la diretta correlazione tra i due eventi. Potete tranquillamente immaginare che essa sia, in effetti, solo l'effetto di una congiunzione astrale sfavorevole, oppure portare altri argomenti che giustifichino un simile andamento, come, ad esempio, la corruzione.

Tuttavia, pensandoci bene, non mi azzarderei ad affermare che la corruzione giustifichi l'andamento delle due linee del grafico. A meno che non vogliamo davvero pensare che essa sia aumentata esponenzialmente proprio a partire dal 2008. Quindi, benché i casi di mala gestione da parte dei banchieri, anche penalmente rilevanti, ci siano stati (e continueranno ad esserci) il dato complessivo è molto più probabile che sia causato dalle conseguenze della crisi (e dell'austerità).

Servirà a qualcosa ricapitalizzare le banche più in difficoltà (con i nostri soldi), come sta tentando di fare il governo per evitarne la chiusura, e scongiurare così il rischio di una corsa agli sportelli? Se riusciremo a trovare un accordo con la UE avremo "comprato del tempo" senza però risolvere il problema. Siamo in un circolo vizioso. Infatti, se la questione delle sofferenze bancarie è direttamente connessa alla mancata crescita del PIL, l'aumento di quest'ultimo ad un ritmo consistente, come dovrebbe essere quello che sarebbe utile a portarci fuori da questa crisi, produrrebbe un ulteriore incremento del credito bancario, del debito estero e, prima o poi, ancora delle sofferenze bancarie. Questo perché il vincolo esterno che lega i paesi dell'euro zona, ovvero il cambio fisso, non consente di rilanciare le economie dei singoli paesi tramite la svalutazione monetaria.

lunedì 27 giugno 2016

Il "più Europa" è il nuovo "che mangino le brioches"

Ma gli europeisti (che sono solo una parte degli europei, ricordatevelo!) si rendono conto, oppure no, di essere un pochino snob e aristocratici? Temo che la risposta sia affermativa. Ne sono anche un po' orgogliosi. Forse perché ambiscono ad appartenere ad un élite che tuttavia è così esclusiva che lascerà fuori dalla porta molti dei suoi adepti, al momento giusto. Non voglio generalizzare, non credo che siano tutti così, ma dai commenti di questi giorni sul risultato del referendum britannico questa mia sensazione esce rafforzata. Sento dire che i vecchi hanno rubato il futuro ai giovani e chi ha votato Brexit viene dipinto come un bifolco razzista. Sarà pure vero che durante la campagna sul referendum i britannici sono stati influenzati dalle argomentazioni discutibili, e per altro tipiche, di qualche politico di destra. Ma non sono forse egualmente discutibili anche le salvifiche virtù europee? E, soprattutto, i voti degli anziani e degli abitanti delle periferie, per le sinistre moderne, non valgono quanto quelli dei cosmopoliti, e ricchi, giovani della city londinese?

Il fatto è che dall'origine del processo d'integrazione prevale tra gli europeisti la mentalità che questo sia un disegno da portare avanti, anche contro la volontà popolare, a qualunque costo. Dal celebre Manifesto di Ventotene "per un'Europa unita e libera" redatto da: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann leggiamo come il rivoluzionario europeo <<attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle informi masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato e, intorno ad esso la nuova democrazia>>.

E vabbè direte voi, erano gli anni quaranta del novecento, c'era la guerra, altri tempi. Invece no. Anche in tempi più recenti l'atteggiamento degli europeisti verso chi bloccava, o rallentava, il loro divino progetto non è stato accettato con molto fair play. Basti ricordare, ad esempio, il prepotente ribaltone del referendum greco di appena un anno fa, o l'attuale petizione on-line per ripetere il referendum inglese di pochi giorni fa. Petizione che, tra l'altro, potete firmare anche voi semplicemente dando un codice postale britannico e dichiarando di essere cittadini del Regno Unito. Io l'ho fatto. Perché non dargli una seconda possibilità? Come successe con il referendum Irlandese che rifiutava il trattato europeo di Lisbona nel 2008 ripetuto appena l'anno successivo, ovviamente, con un risultato gradito agli europeisti.

D'altronde è risaputo il fatto che i funzionari europei non abbiano molto a cuore l'opinione dell'elettorato. Come dimenticarsi le simpatiche dichiarazioni dell'ex presidente del consiglio europeo Edward Von Rompuy <<L'intero territorio europeo, a parte la Russia, verrà inglobato nell'Ue. Non so se c'è il sostegno dell'opinione pubblica, ma lo faremo lo stesso>>

Oppure, tra le altre, la celebre frase dell'attuale presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker <<Noi prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere cosa succede. Se non protesta nessuno, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto in cui non si può più tornare indietro>>.

E che dire invece del meraviglioso libro di Mario Monti "Intervista sull'Italia in Europa", curato dal giornalista Federico Rampini nel 1998. Nel testo si possono leggere tante perle riguardo all'atteggiamento democratico del nostro ex Presidente del Consiglio. Ad esempio, il fatto che le paure siano il motore dell'integrazione europea (e in questi giorni di Brexit ce ne siamo accorti una volta di più, grazie al delirio catastrofico europeista di giornali e TV). Ma c'è anche l'impagabile chiarezza sull'intenzione di mantenere le istituzioni europee <<al riparo dal processo elettorale>> (non sto scherzando, leggete qui).

Per finire, ecco un altro esempio di democraticità che ci viene proprio da un federalista europeo, erede di Spinelli, sessantanni dopo Ventotene: Roberto Castaldi, professore dell'Università Roma III. In "La moneta unica e l'unione politica" l'autore scrive che <<L'euro è nato anche per mettere l'Europa a un bivio, o meglio su un piano inclinato verso la statualità europea. Una moneta unica senza un governo dell'economia non può reggere a lungo>>. Niente di nuovo per chi si ricorda l'intervista di Romano Prodi del 2001 al FT (il famoso, <<un giorno ci sarà una crisi...>>).

Avete capito, oppure no, che il vostro dissenso per loro non conta? Ogni cosa si risolve con il "Più Europa!". Crescita? "Ci vuole più Europa!". Lavoro? "Ci vuole più Europa!". Reazioni al Brexit? "Ora ci vuole più Europa!"? Non hanno pane? Che mangino "Più Europa!".

lunedì 6 giugno 2016

Economisti che avevano previsto il disastro dell'euro: quinto episodio (Frank Hahn)

Con questo post si arricchisce il ciclo sugli economisti che, in tempi non sospetti, avevano previsto le amare conseguenze dell'euro. Per leggere le precedenti quattro puntate cliccate sui seguenti collegamenti: I - II - III - IV.

Lo scopo di queste testimonianze è, come sempre, quello di dimostrare che la crisi in cui ci troviamo, causata dall'euro, non è affatto imprevista, o provocata da eventi eccezionali, ma che gli effetti dell'adozione di una moneta unica erano ben noti agli addetti ai lavori già prima che questo progetto vedesse la luce.

La quinta evidenza che porto alla vostra attenzione per dimostrarvelo è l'intervista che, nel 1992, il giornalista Mario Pirani fece al prestigioso economista britannico dell'università di Cambridge Frank Hahn. L'articolo, intitolato "Con la moneta unica avremo più disoccupati"è ancora oggi disponibile on-line nell'archivio storico del giornale La Repubblica.

Il Prof. Hahn comincia affermando che, in effetti, non si può considerare l'economia come una vera scienza: "Ho sempre creduto che la teoria economica avesse molta strada da fare per arrivare soltanto a metà cammino verso la cosiddetta scientificità". Fino a questo punto nulla di particolarmente eccitante. Anzi, queste modeste parole di un importante uomo di scienza, estrapolate dal loro contesto, daranno sicuramente modo a chi, non provando alcun vero interesse per l'economia, vorrebbe semplicemente evitare di considerare seriamente le teorie degli economisti. In questo senso, poter dire che l'economia non è una scienza è la massima aspirazione per chi pretende di parlare liberamente di questo argomento, senza peraltro volerlo studiare.

Il punto interessante però è che, nonostante l'intervistato ammetta tranquillamente i limiti delle teorie economiche, alla domanda specifica sull'euro risponde così: "Ho tenuto qualche tempo fa una lezione alla Banca d'Italia dove ho spiegato, dal punto di vista teorico, perché l'unione monetaria va contro quasi tutto quello che sappiamo di economia".

Il professore di Cambridge, che aveva già allora le idee chiarissime sull'argomento, prosegue: "C'è una teoria dell'area monetaria ottimale in cui si dice che la mobilità dei fattori della produzione è cruciale per il raggiungimento degli equilibri [...]. Ora, la mobilità del lavoro è abbastanza elevata tra Inghilterra e Scozia, ma non altrettanto in Europa, per differenze culturali, di lingua, di costumi sociali e, quindi, fissare i tassi di cambio non è una buona idea".

La previsione dell'economista di Cambridge è la seguente: "Con l'unione monetaria, invece delle fluttuazioni del cambio si avranno fluttuazioni nel tasso di disoccupazione".

A questo punto, la domanda che mi sento rivolgere spesso è: "perché hanno fatto tutto questo pur sapendo che non avrebbe funzionato?". Non è che io non voglia rispondere a questa legittima curiosità. Il punto però è che, molto spesso, chi me la rivolge pensa di poter mettere in dubbio il fatto stesso che l'euro abbia causato la crisi in Europa, solo sulla base del proprio giudizio sul mio parere personale, riguardo al motivo per cui esso sia stato comunque adottato. In breve, se quello che rispondo alla sua "domanda a trabocchetto" gli sembra lievemente "complottista" o "politicamente orientato" lui (o lei) si sentono legittimati, nonostante tutto, ad archiviare la questione. Questo è il classico "salvagente" che aiuta la psiche umana a rimanere nella propria area di comfort. Quello che invece una discussione seria dovrebbe evidenziare è che, qualunque sia il giudizio storico sui motivi politici che hanno portato all'euro, rimane indubbio il fatto che si sapesse già da prima che esso avrebbe provocato le conseguenze che oggi viviamo sulla nostra pelle. Vi ricordate la profezia di Prodi? "Sono sicuro che l'euro ci obbligherà a introdurre un nuovo set di strumenti di politica economica. E' politicamente impossibile proporre ciò ora. Ma un giorno ci sarà una crisi e nuovi strumenti saranno creati" (Romano Prodi, The Wall Street Journal 31 ottobre 2001")

Comunque, se proprio volete una risposta alla vostra domanda sul perché tutto questo è stato fatto, nella stessa intervista Frank Hahn fornisce il suo parere:  "Il vero motivo per sostenere i cambi fissi è, in effetti, il controllo della classe lavoratrice. Infatti, fintanto che i governi non creano un meccanismo che leghi loro le mani, non è possibile contenere l'inflazione salariale. Credo che i sostenitori del cambio fisso vogliano introdurlo solamente per la paura dell'inflazione e, poiché di questi tempi siamo nelle mani dei banchieri centrali, per i quali il grande nemico è l'inflazione più che la disoccupazione, questa scelta si spiega".










lunedì 25 aprile 2016

Draghi-Merkel e la polemica sui tassi d'interesse

E' di questi giorni la polemica tra la cancelliera tedesca, la Signora Merkel, e il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi, per il mancato aumento dei tassi d'interesse, fermi al minimo storico (qui). Immagino che alcuni di voi si saranno domandati come mai in Germania spingono per un rialzo del costo del denaro?

I lettori di questo blog sono consapevoli del fatto che la crisi economica europea è causata dal tentativo, in atto, di porre rimedio allo squilibrio macroeconomico in essere tra i vari paesi che aderiscono all'eurozona.

Nel paese più ricco, la Germania, continuano ad affluire sempre più denari, a causa del saldo fortemente attivo delle partite correnti.


Come ci ha raccontato nel 2013 il vice presidente della BCE, nel corso degli anni duemila, il surplus realizzato dall'economia tedesca non rimaneva in Germania ma, coloro i quali lo realizzavano, imprenditori e banchieri, lo investivano nei paesi periferici (quelli che una volta venivano chiamati PIIGS: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).

Dallo scoppio della crisi, tuttavia, le pesanti politiche di austerità avvenute nelle suddette economie periferiche, che sono consistite in azioni volte a favorire la diminuzione dei consumi interni (quindi delle importazioni, e della domanda di capitali dall'estero), è emerso il problema, per i banchieri e gli industriali tedeschi, di investire il loro denaro a casa propria con inferiori margini di guadagno.

Quindi, oggi, in Germania abbiamo finanziamenti e mutui concessi al pubblico a tassi vicini allo zero o, addirittura, negativi.


Questo, tra l'altro, sta facendo aumentare il prezzo degli immobili aumentando il rischio di alimentare la solita bolla speculativa.

Come rimediare? Il governatore Draghi potrebbe accontentare la Signora Merkel e aumentare i tassi. Questo, però, sfavorirebbe ancora di più le economie periferiche, e le loro banche, che hanno bisogno di denaro a prezzi convenienti poter coprire le loro perdite, causate dall'austerità, e investire nuove risorse nei contesti dei paesi periferici, dove le famiglie e le imprese non si possono permettere tassi più elevati.

Mario Draghi sarà, forse, indipendente dai poteri politici ma di sicuro non può far niente per mettere tutti d'accordo. Il suo tasso d'interesse è come un vestito a taglia unica, troppo largo per i magri ma anche troppo stretto per i più robusti.

La possibile soluzione del rebus compete alla Signora Merkel ma, indipendentemente dalla sua volontà, non è detto che abbia la forza politica per attuarla. Potrebbe, infatti, favorire l'aumento degli stipendi dei lavoratori tedeschi. In questo modo, parte di quegli aumenti verrebbe consumato in prodotti d'importazione dai paesi periferici. Questo aiuterebbe il riequilibrio macroeconomico dell'eurozona, ma ridurrebbe i margini di guadagno degli imprenditori tedeschi e, inevitabilmente, comporterebbe un aumento di quella disoccupazione che, fino ad ora, la Germania ha potuto esportare nel resto d'Europa, tramite una moneta ampiamente sottovalutata per la sua economia.

Insomma, dopo quasi dieci anni di crisi, i problemi causati dalla moneta unica sono ben lontani dall'essere risolti e, piaccia o no, aumentano le possibilità che questo sistema monetario possa disgregarsi alla prossima crisi.

lunedì 7 marzo 2016

Pazzi al potere

Molti di voi saranno di certo a conoscenza del disgustoso tentativo in atto in parlamento volto a facilitare l'esproprio, da parte delle banche, delle case degli inquilini morosi. Trovo fuori luogo i discorsi di coloro i quali credono di essere nel giusto, sostenendo che sia un sacrosanto diritto del creditore quello di rientrare dei soldi prestati, perché essi non capiscono quale sia, in realtà, il contesto di una simile operazione.
I proprietari debitori, sto parlando di connazionali: imprenditori, professionisti, ex impiegati e operai, che è difficile immaginare come un gruppo di furbi e avventurosi scialacquatori di risorse altrui sono, in effetti, solo persone che non riescono più a pagare, avendo perso tutto a causa della crisi.

Sono i disoccupati e i falliti causati dalle politiche di austerità che i governi italiani, su ordine della Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale), hanno approvato al solo scopo farci rimanere nell'euro, impedendoci quella naturale svalutazione di cui hanno beneficiato le economie di tanti paesi fuori dall'eurozona. E' a questi stessi disgraziati che taluni ben pensanti oggi fanno la morale. Responsabili, a loro dire, di non essere riusciti a pagare i propri debiti. Quando, in effetti, i loro creditori (le banche) sono a loro volta indebitati con altre istituzioni estere che, evidentemente, hanno un peso specifico molto elevato, se possono arrivare fino a fare approvare simili provvedimenti dal nostro parlamento. E, la colpa di questi debiti e crediti, come ben sa chi ha letto i documenti ufficiali, non le favole che racconta l'informazione mainstream, è dell'euro.

In tutta la gestione politica seguita alla crisi, i nostri governanti hanno delle responsabilità ben precise. Se c'è un comune denominatore di tutte le cosiddette "riforme" approvate dai governi di questo periodo, vedi ad esempio il Jobs Act, è quello di essere tutti provvedimenti dal lato dell'offerta. Ovvero, leggi che servono a migliorare l'efficienza della produzione di beni e servizi, che noi riusciamo a comprare sempre meno, a danno di coloro i quali quei beni e servizi li producono (che siamo sempre noi, miei cari amici). In breve, in una crisi di domanda, cioè di consumi, i nostri governanati non trovano di meglio da fare che sottoporci a pesanti misure a favore della produzione, cioè dell'offerta, nel tentativo di rendere quei beni e servizi convenienti ai residenti esteri.

Da una parte, io ho sempre interpretato questo atteggiamento come una sorta di tradimento nei confronti degli elettori, il popolo italiano. Tuttavia, forse, aveva ragione Keynes quando, in tempi non dissimili dai nostri, scriveva:

<<Le idee degli economisti e dei filosofi politci, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose al di fuori di quelle. Gli uomini della pratica, i quali si rintengono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro>>.

Questa gente è vittima delle proprie convinzioni scientifiche e, nonostante i pessimi risultati ottenuti, crede ancora alla bontà delle proprie ricette ordoliberiste, mercantiliste e monetariste. E andranno avanti fino a quando gli italiani non glielo impediranno. Addossando noi (scansa fatiche, corrotti, bamboccioni, choosy, etc. etc.) tutto il peso, e le responsabilità, della sconfitta delle loro idee. Tutto quello che hanno fatto, e che stanno facendo ancora oggi, in Grecia, proveranno a metterlo in atto anche qui da noi. Perché <<Ce lo chiede l'Europa>>, <<Non c'è alternativa>>, <<Non ci sono i soldi>> ma soprattutto, non ci sarà pietà per nessuno.

lunedì 8 febbraio 2016

Quelli che: "l'euro a mille lire!"

Questo post non è mio ma, dato che mi piaceva, l'ho deliberatamente "copiato" da (questo) del Prof. Bagnai. Non è il primo ne sarà il mio ultimo "plagio" anche perché, a mio avviso, l'imitazione rimane sempre la più alta forma di ammirazione.

L'annosa questione è questa: <<sarebbe convenuto all'Italia entrare nell'euro con un cambio a mille lire?>>

Ne avrete sentito parlare spesso, soprattutto ad inizio anni duemila, quando i caffè al bar (e non solo) passarono da mille lire a un euro nel giro di una notte. Cosa che, per inciso, corrisponderebbe ad un'inflazione del 100%. Tuttavia, stando ai dati, tale esplosione dei prezzi non è mai avvenuta. C'è chi ci crede e chi no. Io posso solo mostrarvi i dati, dopodiché, se avete qualcosa da ridire riferitelo a chi di dovere. Avendo, tuttavia, la cura di badare al fatto che, anche se in quel periodo il vostro costo della vita è terribilmente aumentato (caffè, aperitivi, cene al ristorante) questo non significa che la stessa sorte sia toccata al paniere di beni utilizzato per le statistiche. E, soprattutto, che un'esplosione dei prezzi della portata che voi ipotizzate avrebbe avuto un effetto non irrilevante sulle esportazioni. Ok? Se ancora vi brucia perché nel 2002 il vostro pizzaiolo vi passò la margherita da 5.000 lire a 5 euro non sfogatevi con me. Il senso di questo post è un altro.


Prima di passare all'analisi vera e propria vale solo la pena ricordare che il cambio lira/euro non fu stabilito nel 2002, al momento della circolazione dell'euro al pubblico, e neanche nel 1999, anno di nascita della moneta unica, ma nel 1996 quando furono stabiliti i cambi obiettivo di ciascuna divisa verso l'ECU (antesignano dell'euro). Di seguito, per comodità, troverete il cambio lira/ECU (e quindi lira/euro) arrotondato a 2.000 (invece che a 1.936,27).


La figura 1 è una tabellina Excel che mostra gli stipendi di due ipotetici personaggi, l'italiano Giovanni e il tedesco Hans, i loro rispettivi stipendi e il prezzo della macchina di riferimento (per la classe media) in ognuno dei due paesi. Si osservi come per entrambi (Giovanni e Hans) la Punto è la macchina più a buon mercato ma, mentre per Giovanni è una scelta non solo molto raccomandabile ma quasi obbligata (dato il prezzo della Golf), Hans può permettersi di meglio perché guadagna di più. Per questo motivo i Giovanni italiani (anche quelli senza due "n") scelgono la Punto, e la Golf rimane un sogno proibito per molti. D'altra parte, solo gli Hans più parsimoniosi si compreranno la macchina italiana, gli altri, beati loro, andranno in giro con la Golf (rigorosamente grigia metallizzata, il colore nazionale delle auto tedesche).


Nella figura 2 si mostra il passaggio all'euro con il cambio standard a duemila lire (che poi sarebbe 1.936,27). Come vedete, il cosiddetto changeover (così lo chiamano gli economisti) è neutrale, cioè non colpisce ne gli acquisti di Giovanni ne quelli di Hans (come invece succederà nel corso degli anni, man mano che l'effetto dei differenziali d'inflazione, e delle politiche di moderazione salariale in Germania, si farà sentire. Se vi sfugge il senso della cosa, leggete qui).


Infine, nella figura 3, troviamo la situazione desiderata da coloro i quali pensano (ma cambieranno subito idea) che avremmo dovuto entrare al cambio di mille lire per un euro.

Notate che, con il cambio lira/euro a mille (e quello del marco invariato), ad Hans non sarebbe cambiato nulla, mentre a Giovanni non sarebbe più venuto in mente di comprarsi la Punto, meno blasonata e per giunta più cara della Golf. Il risultato? Per compensare il calo delle vendite la fabbrica della Punto avrebbe dovuto licenziare e/o delocalizzare istantantaneamente. Insomma, sarebbe successo subito quello che è accaduto più lentamente, e solo in parte, nel corso degli anni. 

C'è di più. Se oggi abbiamo problemi con una moneta, che nel corso degli anni, si presume che sia diventata (per noi) troppo forte, diciamo di circa il 20%. Pensate a cosa sarebbe successo se, nel corso di una notte, si fosse rivalutata addirittura del 100%!