lunedì 23 febbraio 2015

Più Europa e più mercato, ma per carità, meno democrazia.

Non so se voi avete avuto la stessa impressione, ma io sto notando, da parte di alcune mie conoscenze, una tendenza a considerare sempre più negativamente la partecipazione democratica. Quella dal basso, come la democrazia diretta, ma non solo, ogni forma di allargare i dibattiti è considerata da costoro alla stregua di una perdita di tempo dannosa per l'inevitabile ritardo che essi causano al processo decisionale. Credo che quest'opinione si stia radicando, col passare del tempo, a causa del fastidio che molti provano nel vedere i politici litigare senza che questo porti ad alcun miglioramento della nostra condizione.

Credo che  sia un'opinione diffusa quella che sostiene che bisogna fare qualcosa, quale che sia, purché si faccia presto. E per questo bisogna affidarci a governi forti e maggioranze sicure. Perché altrimenti ci facciamo bloccare da quelli che dicono sempre no a tutto. Ma, il mantra del governo forte che ci viene raccontato da tempo è giustificato dai fatti?

Sarà che riforme come quelle della giustizia che dovrebbero avere il compito di diminuire la lunghezza dei processi, o una legge contro la corruzione sono rallentate dai dissidi, di volta in volta, presenti nelle varie maggioranze. Ma cosa rende tanto sicuri i nostri amici decisionisti che accentrare le decisioni nelle mani di pochi renderebbe queste riforme possibili e soprattutto efficaci? Già, perché coloro i quali invocano una maggiore concentrazione del potere nelle mani di pochi, di solito, sono proprio gli stessi che poi votano proprio quelle persone (e quei partiti) che fino ad oggi, nonostante maggioranze forti come quelle del governo Monti (o dell'ultimo governo Berlusconi) non si sono dimostrate efficaci nelle cosiddette "riforme".

C'è poi una questione non da poco. Ma siamo sicuri che i problemi di cui ci lamentiamo quotidianamente siano dovuti all'immobilismo? O sono piuttosto causati da una serie di pessime decisioni prese nel tempo mentre noi ci facevamo, giustamente, i fatti nostri?

Chi mi segue sa che la Banca Centrale Europea ha spiegato che la crisi in cui ci troviamo non sia stata causata dalle mancate riforme, ma piuttosto dalle conseguenze della nostra adesione all'euro, per altro avvenuta senza chiedere il parere della popolazione ma affidandoci solo al giudizio dei suoi rappresentanti. Il governo e tutta la maggioranza ovviamente negano, e rilanciano con lo slogan degli stati uniti d'Europa. Tra l'altro, in modo molto riservato, quasi segreto, per mezzo della Commissione Europea, i nostri governi stanno trattando proprio in questo periodo un nuovo accordo con gli USA per un'area di libero commercio transatlantica, il TTIP. E' per il nostro bene, ma per ora non dobbiamo saperne niente.

Il problema del debito pubblico, che teneva banco fino a qualche tempo fa e, stranamente, ora che è aumentato nessuno ne parla più, si è originato da una decisione presa nel 1981 dall'allora ministro Andreatta insieme al governatore della Banca d'Italia Ciampi. I due conclusero che, per il nostro bene, i tassi d'interesse dei titoli pubblici dovevano essere decisi dal mercato. Il fatto storico è noto come il divorzio tra Ministero e Banca d'Italia, e nessun italiano è mai stato interpellato a riguardo.

Potete osservare da questo grafico come il rapporto debito pubblico PIL esploda in due momenti storici, nel 1981 a causa del "divorzio" e in conseguenza delle politiche di austerità seguita alla crisi attuale.
Negli ultimi 20-30 anni, i governi che si sono succeduti hanno fatto ristagnare i redditi da lavoro e fatto crollare la quota salari sul PIL a favore dei redditi da capitale, senza trovare opposizione in parlamento, e nel silenzio generale dei media. Il tutto tramite provvedimenti come la precarizzazione del posto di lavoro, salvo poi causare una crisi di domanda senza precedenti. Chissà se a posteriori, qualche imprenditore iscritto a Confindustria, che era così contento dei suoi co.co.pro. a 500 euri, ora si è fatto venire il dubbio che, forse, se tutti guadagnano meno è più difficile far crescere il fatturato della fabbrichetta. Il jobs act di recente approvazione è la seconda riforma del lavoro in tre anni, e la quarta in meno di venti, sempre a svantaggio dei nostri redditi. Ma è per il nostro bene.

Notate come il reddito medio pro capite degli italiani a confronto di quelli degli altri paesi europei inizia a crollare fin nel 1996, ovvero dalla nostra adesione ai cambi irrevocabili poi entrati in vigore nel 1999 con l'euro che ha reso sempre più necessaria la svalutazione del fattore lavoro: legge Treu 1997, Biagi 2003, Fornero 2012, Jobs Act 2014.
Ora, il chiodo fisso dei nostri governanti è la riforma costituzionale, dato che in questi ultimi anni abbiamo avuto troppa democrazia, e si sono fatte troppe discussioni per nulla (quali?). Essa dovrà velocizzare l'approvazione delle leggi ponendo fine al bicameralismo perfetto e, tra le altre cose, triplicare le firme da raccogliere per le leggi d'iniziativa popolare. Inoltre, la nuova legge elettorale dovrà consentire a chi vince di governare da solo con un bel premio di maggioranza, e con dei deputati, in larga parte, scelti dalle segreterie di partito. Un po' come dire: "lasciateci lavorare in pace, è per il vostro bene".

Che situazione paradossale, no? I diritti le tutele di chi sta alla base della piramide vengono tagliati nonostante la maggiore debolezza ed esposizione ai cambiamenti repentini, e nello stesso tempo il vertice pretende sempre maggiore stabilità e potere. Ma è sempre tutto per il nostro bene. 


lunedì 16 febbraio 2015

Il diritto alla verità: breve riassunto delle vere cause della crisi economica

In un divertente film di qualche tempo fa, il personaggio interpretato da Michele Placido, un ex politico corrotto, nelle ultime scene del  film esprime un interessante concetto, quello del diritto alla verità per i cittadini.

Io non so se quello che vi racconterò di seguito è, o meno, tutta la verità. Lo spero, forse lo penso anche ma più semplicemente vorrei solo divulgare i fatti che, per ignoranza, dolo, o colpa grave, vengono omessi nel quotidiano dibattito sulla crisi economica.

Pertanto, se avrete la pazienza di leggere questo post fino alla fine, forse non verrete a conoscenza di tutta la verità, ma potrete certamente chiedere conto della semplice omissione dei seguenti fatti a tutti coloro i quali vi affidate giornalmente per il consueto racconto delle informazioni economiche e politiche.

Cominciamo da una cosa fondamentale. Chi vi racconta che la crisi italiana è colpa della troppa spesa pubblica (per la verità sono rimasti in pochi) si sbaglia, o vi sta mentendo. Attenzione alla scelta delle parole, non vi ho detto che ha un'opinione diversa da quella di altri, cosa che capita spesso agli economisti, ma che i dati dei grafici che seguono smentiscono la possibilità che la crisi economica italiana si sia originata nel settore pubblico. A livello accademico, nessun economista serio direbbe il contrario perché verrebbe deriso dai suoi colleghi. Del resto, anche la Banca Centrale Europea ha ammesso che la spesa pubblica ha avuto molto poco a che fare con la crisi (qui).

Come potete vedere, la spesa pubblica italiana è stata di soli tre punti percentuali scarsi sopra la media UE durante il periodo precrisi. Che la crisi non è stato un problema di spesa pubblica, inoltre, lo dimostra il fatto che tutti gli altri paesi sotto stress per la crisi (i PIIGS, in rosso) hanno avuto nel periodo 1999-2007 una spesa inferiore alla media UE.
La linea azzurra mostra il saldo primario del bilancio pubblico dal 1991 al 2012. Potete osservare come le entrate pubbliche, non considerando gli interessi passivi, hanno sempre superato le uscite, con la sola eccezione del 2008.
Questo grafico mostra l'andamento decrescente del debito pubblico in rapporto al PIL per tutto il periodo di preparazione della crisi.
Nel periodo precedente la crisi, l'Italia non ha avuto una spesa pubblica particolarmente alta rispetto ai partner europei. Inoltre ha conseguito un avanzo primario tra i più alti. Infine, il rapporto fra debito pubblico e PIL negli anni che hanno preceduto la crisi ha continuato a migliorare.

Ma allora quali sono le cause della crisi?

Il problema è che, per diversi anni, dall'Italia sono usciti più soldi di quanti ne sono entrati dall'estero. Se volete le prove, sarà sufficiente dare un'occhiata al grafico successivo che mostra il saldo annuale (in rapporto al PIL) delle partite correnti che, grosso modo, qui non siamo professori d'economia, corrisponde alla differenza fra esportazioni (entrate di risorse finanziarie) e importazioni (uscite di risorse finanziarie). Questo ha causato un debito con l'estero (originatosi per lo più nel settore privato, non in quello pubblico) che potete vedere nel grafico successivo a quello delle partite correnti. A finanziarci erano le banche dei paesi del nord Europa, Germania in testa, perché grazie all'impossibilità di svalutare, e dato che i nostri tassi d'interesse sono più alti di quelli tedeschi, gli investimenti verso il nostro paese erano diventati molto più convenienti di quelli del loro.

Il grafico delle partite correnti qui sopra evidenzia come a partire dal 1997 il surplus della bilancia commerciale italiana diminuisca fino a andare in deficit a partire dagli anni 2000 per poi tornare in attivo a causa dell'austerità.
La linea blu mostra il saldo delle partite correnti già riportato nel grafico precedente, mentre la linea rossa è il debito estero italiano che peggiora drammaticamente negli anni dell'euro.
Questo grafico mostra l'aumento dell'indebitamento del settore bancario dei paesi definiti PIIGS nei confronti di quelli "virtuosi" avvenuto dalla nascita dell'euro fino alla crisi. Per quanto riguarda il nostro paese è praticamente raddoppiato nel periodo antecedente la crisi. La fonte di questa slide è il discorso del vice Presidente della BCE Vitor Constancio ad Tene nel maggio 2013 (qui).

Ora, osservate meglio cosa succede al grafico delle partite correnti a partire dalla seconda metà degli anni novanta. Il surplus finanziario italiano si abbassa, anno dopo anno, fino a diventare un deficit a partire dagli anni duemila, e tornare in attivo solo a partire dal 2013.

Volete sapere cos'è successo?

A partire dalla seconda parte degli anni novanta la lira italiana si rivaluta su tutte le monete che a partire dal primo gennaio 1999 sarebbero entrate a far parte dell'euro. Seguono alcuni esempi (la fonte dei grafici è la Banca d'Italia).

Il cambio lira marco raggiunge il suo massimo punto di svalutazione (della lira) nel 1995 per poi rivalutarsi fino alla sua definitiva stabilizzazione avvenuta con l'avvento dell'euro
Il cambio della lira sul franco francese segue lo stesso andamento di quello già visto relativamente al marco
Anche la peseta spagnola segue lo stesso andamento precedentemente osservato per il marco e il franco francese
L'andamento del cambio con il fiorino olandese è in linea con i precedenti
Questi sono fatti storici, non opinioni. Nel novembre del 1996 furono fissate le parità di cambio fra le valute aderenti alla moneta unica che sarebbero poi entrate in vigore con l'euro. Voi capirete bene che, a una rivalutazione della propria moneta corrisponde un vantaggio nelle importazioni dato da una valuta più forte, e un conseguente svantaggio dovuto al fatto che per i residenti esteri (quelli nei confronti i quali hai rivalutato) i tuoi prodotti diventano più cari. Il punto è che per un paese che esporta manufatti, e l'Italia è infatti ancora la seconda economia manifatturiera d'europa dopo la Germania, una rivalutazione è più dannosa di una svalutazione. L'argomento può essere approfondito da chiunque ne abbia voglia, ma la realtà dei fatti è esposta chiaramente nella curva al ribasso del nostro saldo delle partite correnti tra il 1997 e il 2011.

Voi però direte che, a partire dal 1999 è arrivato l'euro, il cambio si è stabilizzato perché tutti avevano la stessa moneta, ma il saldo delle partite correnti italiane ha continuato a peggiorare. Il motivo per cui questo è accaduto è abbastanza semplice. Il cambio nominale con l'euro è rimasto sì fisso, e uguale per tutti i paese dell'area, ma quello reale, che incorpora il dato d'inflazione ha continuato a divergere fra i singoli paesi. Qui sotto potete vedere cos'è successo all'inflazione italiana rispetto a quella della Germania.

Il grafico mostra il differenziale d'inflazione tra Italia e Germania nel periodo 1996-2013 (in verde) che arriva a circa 13 punti percentuali. Il tasso d'inflazione della Germania è la linea blu mentre quello dell'Italia corrisponde alla linea rossa. Avendo un'inflazione minore, e non dovendo rivalutare, le stesse banconote in Germania oggi valgono il 13% in più rispetto all'Italia. Questa divergenza fra il cambio nominale (1 a 1) e quello reale, di fatto, corrisponde a una svalutazione competitiva dell'economia tedesca.
Quindi, riassumendo, ad una rivalutazione del cambio nominale avvenuta negli anni novanta si è sommata un'altra rivalutazione, del cambio reale, negli anni duemila. Praticamente, noi stiamo rivalutando da vent'anni mentre il commercio internazionale dei paesi come la Germania, da allora, sta godendo dei vantaggi connessi una svalutazione competitiva. Già, proprio quella svalutazione competitiva che noi non dovremmo fare perché sarebbe immorale.

Cos'è successo a partire dal 2011?

Vi ricordate quella conferenza stampo in cui Sarkozy e la Merkel risero di Berlusconi (e di tutti noi) in risposta alla domanda di un giornalista che chiedeva se il governo italiano avrebbe preso le contromisure necessarie per affrontare la crisi finanziaria in atto in quel periodo? Bene, il problema è stato risolto con un accordo politico che ha fatto comodo sia a Berlusconi che all'allora opposizione (il PD). Il Cavaliere presentò le sue dimissioni e il Presidente Napolitano nominò un ex commissario europeo, un tecnico, che si fece carico di fare quella macelleria sociale, necessaria a risollevare il nostro saldo delle partite correnti, appoggiato da una maggioranza composta sia l'ex maggioranza che dall'ex opposizione. Quel tecnico, lo conoscete tutti, si chiama Mario Monti.

Il primo governo Monti ha semplicemente spianato la strada per un Monti bis (Enrico Letta) e un ter (Matteo Renzi). Il suo compito è stato quello di attuare politiche il cui scopo era (ed è) quello di diminuire i consumi degli italiani. Questo ha distrutto il mercato interno (e quindi il PIL), e fatto aumentare la disoccupazione a livelli mai visti nel nostro paese, ma ha ridotto le importazioni, e riportato in attivo il saldo della bilancia commerciale.

In questo grafico potete vedere la crescita reale del PIL italiano su base annuale. Notate come dopo la crisi nel 2008-2009 l'economia si fosse ripresa e come a partire dal 2011, con l'austerità ripiomba nel baratro. Nel 2013, due anni dopo, la crescita era ancora negativa (-2%).
Questo grafico, preparato dal Prof. Alberto Bagnai per il suo blog Goofynomics mostra l'andamento delle esportazioni e delle importazioni italiane a partire dal 2007. L'andamento delle importazioni (linea rossa) è decrescente fino al 2009 (a causa della crisi finanziaria proveniente dagli USA) poi si riprende fino al 2011, e poi crolla nuovamente a seguito alle politiche di austerità del governo Monti. Al contrario, le esportazioni, che non dipendono dai nostri redditi ma da quelli degli acquirenti esteri non subiscono alcun crollo. L'austerità bilanciato così il nostro saldo delle partite correnti.
Notate come aumenta la disoccupazione in corrispondenza dell'inizio delle politiche di austerità iniziate dal governo Berlusconi e poi rafforzate da quello Monti. Il dato dell'ultimo trimestre 2014 ha raggiunto quota 13%.
Apro solo una breve parentesi. Ho letto su alcuni blog che l'austerità del governo non ci sarebbe stata in quanto le spese pubbliche sono comunque cresciute anche dopo il 2011. Sinceramente, questo è un dato a cui non va dato alcun peso. I fatti mostrano quanto, in Italia, siano diminuiti i consumi a partire dal 2011 e, sempre i dati statistici, mostrano che in questi anni il saldo primario pubblico è sempre stato mantenuto in attivo, e quello secondario, dentro i parametri di Maastricht (salvo in alcuni anni in cui però siamo subito rientrati). Il fatto che la spesa pubblica possa essere aumentata è del tutto indifferente (e prevedibile in anni di crisi). Il punto è che quella privata è sicuramente diminuita, e quella totale pure, e che quindi, il governo non ha fatto alcuna politica attiva per sostenerla. Se non vi piace chiamarla austerità usate pure un'altra parola, non so, Pippo. Dite che il governo ha fatto Pippo, per me è lo stesso.

E il debito pubblico, quello che era accusato di essere la fonte di tutti i nostri mali, grazie alla cura Monti com'è andato? Male, ovviamente. Rispetto al 2007, nel 2013 era già aumentato di quasi trenta punti percentuali. 

L'austerità serve a bilanciare il saldo delle partite correnti ma fa ovviamente incrementare il debito pubblico a causa della recessione, e quindi della caduta del PIL.
Rispondo subito a chi di voi si starà chiedendo cosa avrebbe potuto fare di diverso il governo italiano?

In primo luogo, illustrare la situazione agli elettori con sincerità. Non com'è stato fatto anche con l'ausilio dei media collusi, dicendo che andavano fatte le riforme. Perché, se il problema è che cadono i soldi dalla tasca, questo non si risolve mettendoci dentro altre monete, ma casomai ricucendo i pantaloni. Paradossalmente quindi, disporre nell'immediato di maggiori risorse finanziarie dovute al recupero dall'evasione, dagli sprechi, e dalla corruzione (pur essendo doveroso combattere questi fenomeni) non sarebbe stato molto d'aiuto per la nostra economia, dato che nella nostra situazione questo farebbe aumentare i consumi di beni esteri. Infatti, di tutte le riforme sopra elencate è stato fatto, per il momento, solo il jobs act, la riforma del lavoro che punta a far abbassare gli stipendi dei nuovi assunti, appunto per diminuirne i consumi. Tra l'altro, chi vi racconta che il costo del lavoro in italia è troppo alto, o è ignorante, o mente. I dati sull'argomento sono consultabili da tutti (qui) e quello italiano è nella media UE.

In secondo luogo, la soluzione più ovvia sarebbe stata quella di uscire dall'euro. Questo avrebbe comportato sicuramente una svalutazione del cambio della lira, che come abbiamo visto è di gran lunga sopravvalutato all'interno dell'area euro. Ma questa svalutazione (esterna) non va assolutamente confusa con quella interna, data dall'aumento dei prezzi, ovvero dall'inflazione. Dire che a una svalutazione, per esempio del 20%, corrisponderebbe un aumento dei prezzi di pari percentuale è una menzogna dal punto di vista tecnico (oltre che un atto di vile terrorismo psicologico per chi conosce la verità!). Molti studi economici, che chi vuole può cercarsi, lo dimostrano. Ma poi, voi la spesa andate a farla a Berlino, o al supermercato sotto casa? Se la risposta è la seconda, allora dovreste preoccuparvi di più del fatto che ad un cambio sopravvalutato corrisponda un aumento spropositato delle importazioni, e quindi una flessione della produzione nostrana (che Confindustria stima in un 25% dall'inizio della crisi) e del conseguente aumento della disoccupazione (infatti, se non si vende le aziende mandano a casa i dipendenti) che della probabile svalutazione della lira.

Siamo giunti alla fine di questo post. Vi ringrazio per averlo letto tutto. Come avete potuto constatare dai dati e dalle fonti relative, io vi ho semplicemente mostrato i fatti. Nello specifico, quelli che ho ritenuto fossero più importanti per spiegarvi la questione. Non vi ho preso in giro, ne raccontato falsità. Ora lascio alla vostra voglia di approfondire il tema ogni successiva considerazione. E pensateci bene prima di fidarvi di quello che si sente dire in giro, perché voi avete diritto di conoscere la verità.

lunedì 9 febbraio 2015

Il discorso d'insediamento poco originale del Presidente Mattarella

Alle ore dieci del 3 febbraio 2015 il Presidente della Repubblica Mattarella ha giurato e, come di consueto, letto il suo discorso d'insediamento.


Già dal ringraziamento ai suoi due predecessori Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, a cui andrebbe l'affettuosa riconoscenza degli italiani si capisce che le speranze di un cambiamento potrebbero essere mal riposte.

Lungi dall'essere ingrato verso due eminenti personalità del recente passato ma a Ciampi io associo tutto un certo modo di vedere la politica economica che va dal divorzio tra Ministero e Banca d'Italia all'euro, e di Napolitano non posso non ricordare le sue lacrime di coccodrillo mentre nel discorso di capodanno del 2013 leggeva le lettere dei poveri disoccupati, come se l'austerità da lui voluta non fosse la principale causa della sofferenza di quei cittadini. Ma va bene, non mi aspettavo certo che il nuovo Presidente ripudiasse la stessa maggioranza che lo ha eletto e che, nel corso degli anni, si è resa responsabile di tutto quanto sopra accennato.

Il Presidente ha poi ripetuto più o meno il concetto espresso con le sue prime parole il giorno dell'elezione relativamente alle attese (o le difficoltà) e le speranze degli italiani. Il riferimento era d'obbligo visto che la frase era piaciuta parecchio un po' a tutti.

I problemi, a mio avviso, più importanti emergono su due aspetti non di poco conto.

Il primo è che il Presidente, dopo aver elencato le conseguenze infauste della crisi (ingiustizie, povertà, emarginazione, etc. etc.) dichiara che:

E' indispensabile che al consolidamento finanziario si accompagni una robusta iniziativa di crescita, da articolare innanzitutto a livello europeo.

Pertanto, non ci discostiamo dal solito discorso: "austerità brutta e cattiva ma necessaria, e dalla crisi ci porterà fuori l'Europa".

A tal proposito va osservato che l'austerità (come già argomentato fino alla nausea anche su questo inutile blog) è figlia della volontà di causare una recessione per salvare l'euro. Ad oggi, i problemi per cui questa politica cinica è stata eseguita sono ancora tutti lì. Mi riferisco agli squilibri macroeconomici europei, cioè ai debiti e ai crediti maturati tra i vari paesi a seguito dell'unione monetaria. Pertanto, dell'austerità non se ne può fare a meno (se si resta nell'euro) e  oggi l'economia può ripartire solo a debito, riportandoci però esattamente alle condizioni per cui l'austerità si è resa necessaria. E' insomma un circolo vizioso che a livello europeo solo i paesi creditori sono in grado di spezzare, eliminando loro per primi l'austerità, alimentando in questo modo il nostro commercio verso di loro. Ma non lo faranno, perché questo non è nell'interesse di chi questo sistema l'ha voluto, e in cui si è arricchito, a danno dei suoi stessi concittadini e delle popolazioni del sud Europa.

Come se non fosse già abbastanza, Mattarella aggiunge:

Nel corso del semestre di Presidenza dell'Unione Europea appena conclusosi, il Governo - cui rivolgo un saluto e un augurio di buon lavoro - ha opportunamente perseguito questa strategia.

Vi è poi il passaggio sulle riforme in pieno stile Napolitano sul quale non mi dilungo perché do per assunto il fatto che le mancate riforme non sono la causa della crisi, e il portarle a termine non ci salverà. Anzi, alcune riforme, come quella costituzionale e la legge elettorale, puntano solo a porre le basi per una maggiore repressione della democrazia e, nel caso ce ne fosse ancora bisogno, per una rapida approvazione di una maggiore austerità.

A chi continua a ripetere le solite banalità sulla: corruzione, criminalità ed evasione fiscale, vorrei solo ricordare il ragionamento già fatto sopra. Se il problema è la mancanza di competitività dovuta all'introduzione dell'euro, se anche le riforme avessero successo, e disponessimo di immense risorse tolte alla mafia e agli evasori, la maggior spesa dovuta al loro utilizzo non farebbe che aggravare la nostra situazione debitoria con l'estero a causa dell'incremento delle importazioni che ne deriverebbe. Riportandoci esattamente alle condizioni in cui l'austerità (o l'uscita dall'euro) sarebbero di nuovo necessarie.

Il secondo problema è l'esplicito monito verso l'unione politica del continente europeo:

Nella nuova Europa l'Italia ha trovato l'affermazione della sua sovranità; un approdo sicuro ma soprattutto un luogo da cui ripartire per vincere le sfide globali. L'Unione Europea rappresenta oggi, ancora una volta, una frontiera di speranza e la prospettiva di una vera Unione politica va rilanciata, senza indugio.

Un'unione politica per cui il popolo italiano non si è mai espresso a favore (per la verità, non lo ha mai fatto nessun paese europeo) e che non è mai stata in agenda. Stiamo insomma parlando di fantascienza. Basterebbe solo voler vedere come l'Europa, soprattutto dall'introduzione dell'euro, si sia trasformata in qualcosa più simile a un ring nel quale i pugili se le danno senza esclusione di colpi che a un'area di effettiva cooperazione transnazionale. Insomma, più che sognare un'Europa unita politicamente (niente di più illusorio e lontano dalla realtà), tocca più che altro sperare che le conseguenze dell'unione monetaria non portino, come è accaduto fino ad ora, a un crescente antieuropeismo, al ritorno del nazionalismo, e perfino ad un'inversione di rotta sull'integrazione del vecchio continente. Fingere di non vedere questi problemi reali ed attuali, e girarsi dall'altra parte, non servirà di certo a farli scomparire.

E' appena il caso di accennare a tutti quegli applausi che hanno ricoperto con un indegno velo d'ipocrisia il discorso del neo Presidente. Applausi che venivano, come sempre, dai politici più inadempienti verso i cittadini. Quelli della maggioranza. Tanto per citare solo un episodio emblematico, il giorno dopo il giuramento di Mattarella, e il suo applaudito monito contro la corruzione, il Senato ha bocciato la calendarizzazione della legge anticorruzione presentata mesi fa dal Presidente del Senato Grasso (leggi qui).

Per quanto mi riguarda, l'unica parte del discorso del Presidente Mattarella che ho effettivamente gradito è stata la seguente:

Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l'esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare.

che sta a significare che i governi, d'ora in poi, non dovrebbero più tempestare il Parlamento di decreti legge anticostituzionali con il benestare del Presidente della Repubblica. Speriamo.















lunedì 2 febbraio 2015

Il costo del lavoro in Italia

Anche se l'economia non è una scienza esatta, e ci sono correnti di pensiero che arrivano molto spesso a conclusioni assai differenti, nessuno è giustificato a dare informazioni e dati completamente errati. Tuttavia questo è quello che accade continuamente.

Questo post è per coloro i quali continuano impunemente a mentire sul costo del lavoro in Italia, allo scopo di fare disinformazione strumentale ai propri fini.

Di seguito la tabella Eurostat del costo del lavoro orario (ho scritto Eurostat, ok? Se non vi piace andate in Lussemburgo a protestare). La tabella si ingrandisce cliccandoci sopra.


Chi avesse dubbi su cosa inserisce Eurostat nel costo del lavoro può controllare (qui). E sì, sono compresi anche i contributi sociali.

Pertanto, dice Eurostat, che nel 2013 il costo del lavoro orario medio dell'Eurozona EA-17 è stato pari a € 28,4 contro € 28,1 in Italia (EA non sta per Emporio Armani ma vuol dire Euro Area, e 17 è il numero dei paesi).

Chi prende in giro gli italiani con mirabolanti statistiche sull'alto costo del lavoro si riferisce al costo del lavoro per unità di prodotto (vi parla, in sostanza, di produttività). Tutti quelli che si sono voluti informare sulla crisi, anche su questo misero blog, sanno benissimo che il problema italiano è la produttività. E non potrebbe essere altro in un paese che ha agganciato la propria valuta a quella di paesi con tassi d'inflazione più bassi del suo.

Ma come ha deciso di risolvere questo problema il nostro governo? Con il Jobs Act. In sostanza, cercando di abbassare il costo del lavoro (orario), invece che sganciandosi dall'euro che poi è la principale causa dello spaventoso calo di produzione industriale registrato in questi anni (-25% secondo Confindustria) e pertanto dell'incremento del costo del lavoro unitario. Sapete com'è, se l'azienda è messa nella situazione di vendere meno è ovvio che gli stessi lavoratori, producendo di meno, fanno segnare un costo maggiore per unità prodotta, anche se il loro stipendio è rimasto invariato.

Nel frattempo, il messaggio del mainstream è sempre lo stesso: "le riforme ci rendono liberi".