lunedì 31 agosto 2015

I (veri) dati aggiornati sull'occupazione e la disoccupazione

Da qualche giorno è scoppiata una polemica sui dati forniti dal Ministero del Lavoro relativamente ai contratti a tempo indeterminato attivati e cessati da inizio dell'anno. Pare che le informazioni fornite dal governo siano "lievemente imprecise" (qui).

Sinceramente, io rimango piuttosto freddo ogni volta che qualche ministro comunica alla stampa dei dati positivi sull'occupazione, per due semplici motivi:

1. Per capire come sta andando una partita bisogna sapere il risultato. Pensate a cosa sarebbe il tennis se nessuno tenesse il conto dei punti. Ma come si fa, in questo caso, a conoscere il risultato? Capirlo è semplice, basta guardare i dati dell'ISTAT (qui). Analizziamoli insieme.

Il livello di disoccupazione pre-crisi, dati mensili, rilevazione del gennaio 2007, era del 6,2%. L'ultimo dato disponibile, quello di giugno 2015 è del 12,7%. Il risultato della partita, in questo momento, è un poco confortante +6,5% dopo otto anni e mezzo dall'inizio della crisi.

E da quando il governo Renzi sta lavorando per l'Italia come vanno le cose? A febbraio 2014 il dato fornito dall'ISTAT era del 12,7%, lo stesso di giugno 2015.

Si, ma da quando è entrato in vigore il contratto a tutele cescenti del jobs act, com'è evoluta la situazione? A marzo 2015 la disoccupazione era il 12,6%, un decimo punto meno rispetto giugno 2015.








2. Come deve andare a finire la partita il nostro governo ce lo ha già detto nel DEF 2015. La disoccupazione rimarrà oltre il 10% almeno fino al 2019.


Il motivo per cui trovare lavoro continuerà ad essere difficile è che il governo si è impegnato con l'Europa a mantenere bassi i consumi interni. Per questo motivo serve che la gente non abbia lavoro. Altrimenti acquista. Chi segue questo blog lo sa perché ha letto (questo post) un anno fa.

Chi non si fida di me, e fate bene perché io sono un dilettante, può sentire le stesse parole dalla bocca di uno dei rappresentanti del partito di maggioranza del governo, il deputato del PD Alfredo d'Attorre, in questo video di qualche mese fa.

Quindi, dopo tutto, quale reale motivo abbiamo per continuare a sperare che le cose vadano diversamente?




martedì 25 agosto 2015

Alberto Alesina sull'euro nel 1997 (Economisti ... quarto episodio)

Collegamenti alle puntate precedenti:

- Le aree valutarie ottimali di Mundell
- Il ritorno alle monete nazionali favorirebbe il processo d'integrazione europea che oggi l'euro mette a repentaglio
- Economisti che avevano previsto il disastro dell'euro: terzo episodio

Oggi vi proporrò le considerazioni di un economista italiano molto noto: Alberto Alesina.

Nel 1997 il Prof. Alesina commentò un articolo dell'economista Maurice Obstfeld (Berkeley University) intitolato Europe's gamble (la scommessa europea). Troverete il commento a partire da pagina 301 della pubblicazione.

Alesina era molto pessimista sull'euro. Infatti, secondo lui, era una di quelle scommesse che non avrebbe dovuto essere accettata. Di seguito, un breve riassunto del suo punto di vista di allora.

1. L'Europa ha la dimensione territoriale ottimale per essere uno stato nazionale? L'Unione politica europea è incontraddizione con una tendenza storica. Infatti, nel 1946 c'erano 74 paesi, mentre nel 1997 si contavano 192 nazioni, di cui 87 con meno di 5 milioni di abitanti. Questa tendenza, secondo Alesina, si spiega con il fatto che la globalizzazione ha reso meno rilevanti i benefici dovuti alla grandezza territoriale. <<Per quale motivo un paese dovrebbe rinchiudersi in un'unione politica, quando potrebbe rimanere piccolo, godendo della propria autonomia, e commerciando pacificamente con il resto del mondo?>> 

2.L'Europa è un'area valutaria ottimale? Secondo Alesina, quasi certamente no. Infatti, i benefici dell'euro sono probabilmente piccoli, in compenso, i costi, che sono difficili da misurare, rischiano di essere abbastanza grandi. Tra questi gli shock economici asimmetrici (che sono quelli che colpiscono le produzioni di alcuni paesi più di quelle di altri) dovrebbero essere fonte di preoccupazione. Questo perché la rigidità di cambio impedirebbe ai paesi più colpiti dalla crisi di mettere in atto la svalutazione necessaria a ritrovare la competitività perduta con la crisi. Oltretutto in Europa, al contrario che negli USA, manca la mobilità sociale tipica di un'area valutaria ottimale, a causa delle differenze linguistiche e culturali. <<Penso che l'unica alternativa ragionevole all'unione monetaria nel lungo periodo sia la flessibilità dei cambi, e la libera circolazione dei beni e dei fattori di produzione>>.

3.L'euro aiuta la convergenza tra i paesi europei? Ipotizzando che l'euro sia una pessima idea, creare un pessimo sistema monetario scorretto solo per imporre a pochi paesi di ridurre inflazione e deficit pubblici rischia di essere una politica più negativa che positiva nel lungo periodo. D'altro canto, se l'euro fosse il sistema corretto, la convergenza economica fra i singoli paesi sarebbe un fatto naturale. Quindi, secondo Alesina, l'euro servirebbe solo nel primo caso, cioè quando si rivela più che altro un danno. Inoltre i parametri europei, pur incentivando alcuni paesi a ridurre più velocemente i propri deficit di quanto avrebbero fatto fuori dall'unione monetaria, pongono l'accento più sulla riduzione di tali deficit che sul livello di spesa e tassazione, rischiando così di danneggiare la crescita economica. Infine, anche l'esperienza passata ha dimostrato come la riduzione dei tassi d'inflazione avvenuta durante gli anni ottanta non è stata più rapida per i paesi aderenti al Sistema Monetario Europeo (SME) rispetto a tutti gli altri appartenenti all'OCSE. <<Anche se io non nego che i progressi dell'unione monetaria e il trattato di Maastricht abbiano contribuito ad aiutare i paesi europei a regolare la politica fiscale, non è completamente chiaro in che misura lo abbiano fatto>>

4.L'euro consoliderà la pace in Europa? E' stato più volte affermato sia in ambito accademico che sulla stampa che gli svantaggi dell'euro saranno poca cosa rispetto ai vantaggi dell'unione politica europea, che impedirebbe nuovi conflitti militari come quelli avvenuti durante due guerre mondiali. Alesina trova questo argomento non solo poco convincente, ma persino sbagliato. <<Vorrei far notare come nel corso dei precedenti vent'anni, la tensione fra i paesi dell'Europa occidentale sia stata raramente così alta come negli ultimi mesi, in cui l'unione monetaria sta diventando una realtà>>. Alesina si riferisce al 1997, ma questa considerazione è ancora più valida oggi.

La conclusione, infine, contiene con due considerazioni molto interessanti, soprattutto se viste col senno di poi.

La prima è che i sindacati si sarebbero potuti opporre alla maggiore flessibilità nel lavoro che avrebbe necessariamente prodotto l'euro. Infatti, le riforme sul lavoro iniziarono proprio nel 1997 con la legge Treu, continuarono la riforma Biagi 2003, e infine (per ora) siamo arrivati al Jobs Act del 2015. Tuttavia, l'opposizione dei sindacati paventata da Alesina è stata, in fin dei conti, molto sopravvalutata.

La seconda è che i cittadini europei, quando interpellati, si sono sempre dimostrati molto più prudenti dei propri leader riguardo al progetto europeo. E io aggiungo che oggi, dopo diciotto anni, l'euro non ha certo portato una ventata di europeismo tra le popolazioni.




lunedì 17 agosto 2015

La crescita del PIL in Grecia

Forse, vi sarà capitato di sentire in questi giorni alla TV la notizia che l’economia greca ha beneficiato di una crescita sopra le aspettative nel secondo trimestre 2015. Lo 0,8%, contro una previsione negativa del -0,5%.

Uno sarebbe portato subito a pensare che le cose in Grecia stiano cominciando finalmente ad andare nel verso giusto grazie alle politiche di austerità e le privatizzazioni imposte dall’Europa. Attenzione però, perché la crescita reale del PIL è data dalla somma algebrica di due grandezze: l’andamento del PIL nominale più quello dei prezzi.

Per esempio, se ho una crescita nominale del 3% e un’inflazione del 2%, il PIL reale è aumentato solo dell’1% (3%-2%=1%). Se invece ho una crescita nominale del 3% e una deflazione (il contrario dell’inflazione) del 2%, il PIL reale sarà del 5% (3%+2%=5%). Infine, con una crescita nominale negativa dell’1% e una deflazione del 2%, la crescita reale del PIL sarà positiva dell’1% (-1%+2%=1%).

Nel caso specifico, nel secondo trimestre 2015, la Grecia ha avuto una crescita negativa dell’1,36% e una deflazione del 2,16%. Quindi: -1.36%+2,16% = 0,8%.

Capito? Altro che merito delle riforme. La crescita del PIL greco è causata dal semplice fatto che i prezzi stanno calando più velocemente della produzione! 

venerdì 7 agosto 2015

Ecco perché Monti vuole tassare la casa

Oggi vi propongo questo breve video di un recente intervento di Mario Monti alla trasmissione televisiva Agorà.

L’ex Presidente del Consiglio dei Ministri accenna alla teoria della mobilità dei fattori. Quella che in economia afferma che capitale e lavoro si distribuiscono nel modo più efficiente in un mercato completamente libero. La sua (purtroppo nota) predilezione per la tassazione immobiliare nasce proprio da quel concetto. Perché, se incentivi l’acquisto della casa, le famiglie si sposteranno malvolentieri per andare a lavorare in un’altra regione (o paese).

Per Mario Monti, il capitale deve essere libero di muoversi, sia in Italia che a livello internazionale (es. eurozona). In questo modo, i lavoratori non potranno più permettersi di rimanere stanziali, ma dovranno essere disponibili a spostarsi dove il capitalista (che è colui il quale dispone come meglio crede del fattore capitale, e che ambisce a controllare anche di quello del lavoro) ha deciso di investire in quel momento.

La mia prima considerazione riguarda l’opportunità di continuare a mantenere un sistema internazionale che preveda una sempre maggiore libertà di circolazione del capitale dato che, come abbiamo visto, questo comporta che chi vuole lavorare debba adattarsi a rincorrere il capitale ovunque, con tutti i problemi del caso: le barriere linguistiche, legali, culturali; ma anche la disgregazione delle famiglie e le reazioni razziste delle popolazioni che si vedono “invase” da lavoratori stranieri (o anche connazionali) a basso costo.

La seconda considerazione riguarda il fatto che, storicamente, gli italiani sono un paese di migranti che si muovono sia sul territorio nazionale (da sud verso nord) che all’estero (in Europa e nel mondo). Questo è stato vero in passato e continua a esserlo anche oggi che siamo il secondo popolo per numero di emigrati in Europa. Ma a Mario Monti questo non basta, e continua a considerare i suoi connazionali alla stregua di bamboccioni, come faceva anche un suo illustre collega.


Il sistema che Mario Monti ha in mente non è nuovo. Sarebbe utile ricordarcene, non solo ogni volta che salutiamo i nostri colleghi meridionali, che sono il risultato dell’applicazione di un’area valutaria tutt’altro che ottimale (quella italiana) ma anche quando incontriamo la badante rumena dei nostri nonni, la filippina che fa le pulizie in ufficio, il venditore ambulante abusivo senegalese, e così via, fino ad arrivare al nord africano che lava i vetri al semaforo. Beati tutti coloro i quali si credono migliori degli altri, perché a loro Mario Monti rivelerà il suo concetto di uguaglianza. Lui non fa distinzioni, siete tutti carne da macello allo stesso modo.

lunedì 3 agosto 2015

Quanto ci costa la sanità pubblica?!

Premessa:
considero questo post come il terzo episodio della serie sulla spesa pubblica. Di seguito, troverete i collegamenti alle precedenti puntate:

1. Scuola: la spesa italiana è più bassa della media europea (qui)
2. La spesa pubblica italiana e nell'eurozona (qui)

Abbiamo visto nella puntata precedente che la spesa pubblica italiana corrente, al netto degli interessi passivi, è in linea con la media dell'eurozona. Pertanto, il dato complessivo non suggerisce una particolare necessità di tagli di spesa.

Nella prima puntata, invece, mostravo come la spesa pubblica italiana per istruzione è al di sotto della media europea, e quindi, non sarebbe scandaloso incrementarla invece che ridurla.

Per quanto riguarda la spesa sanitaria, Mario Monti, nel 2012, aveva messo in dubbio la sostenibilità del sistema sanitario nazionale. In questi giorni, in parlamento, si discute su dei tagli alla sanità per circa 2 miliardi di euro (per approfondimenti, vedi qui).

Ma quanto ci costa la sanità pubblica? Sono andato a verificare sul sito della Banca Mondiale e ho costruito il seguente grafico.

Spesa sanitaria pubblica dal 1995 al 2013. I dati sono disponibili sul sito della banca mondiale (qui)
Osservate che, nonostante la crisi in atto, e la conseguente caduta del PIL di 9 punti circa, negli ultimi anni la spesa sanitaria pubblica è comunque diminuita (nonostante quella complessiva sia aumentata).

Ma rispetto agli altri paesi noi quanto spendiamo?

Spesa sanitaria pubblica a confronto (cliccare sull'immagine per ingrandire). I dati sono sempre quelli della Banca Mondiale che trovate qui
Il nostro sistema sanitario pubblico non è affatto tra i più costosi. Almeno se confrontato con quello di altri grandi paesi come: Olanda, Danimarca, Francia, Germania...(solo per citarne alcuni). Ma forse, il dato più curioso è che ci troviamo dietro anche agli Stati Uniti (7,1% del PIL contro 8,1% degli USA) che sono notoriamente un paese che rifugge dal concetto "socialista" di ospedale pubblico.

Tuttavia, esiste un dato ancora più sorprendente, che si trova nel prossimo grafico.

Spesa sanitaria totale (pubblica e privata). Cliccare sull'immagine per ingrandire. I dati dalla spesa totale sono quelli dell'OCSE (qui) a cui ho sottratto i precedenti sulla spesa pubblica per trovare (per differenza) quelli relativi ai costi del settore privato.
Gli Stati Uniti, il modello di sanità privata a cui i nostri riformatori liberisti si ispirano, è di gran lunga il paese al mondo in cui la spesa è più elevata. Lì tutto è privato, e se vuoi essere curato devi avere un'assicurazione medica privata (fatta eccezione per alcune categorie protette). Nonostante ciò, gli americani spendono molto più di tutti gli altri per curarsi.

Voi adesso penserete che in USA la salute è cara ma il sistema privato è senza dubbio più efficiente di quello pubblico. Ebbene, la ciliegina sulla torta è la seguente: una ricerca di Bloomberg (che trovate qui) colloca l'efficienza del sistema sanitario italiano (basato sulla spesa pubblica) al terzo posto a livello mondiale! Mentre gli USA sono solo al 44esimo posto.

Quindi, per quale motivo il governo paventa tagli e privatizzazioni? Cui prodest? L'opinione di Noam Chomsky è che la strategia standard per privatizzare sia la seguente: togli i fondi, ti assicuri che le cose non funzionino, la gente si arrabbia e tu consegni al capitale privato (qui).

In effetti, voler pensar male, sarebbe il caso di osservare che, dato che con la salute si fanno ottimi affari, il settore è molto ambito dagli investitori privati. E' naturale quindi che ci sia la volontà, da parte di questi soggetti, di mettere le mani su una più ampia fetta di mercato.
Guarda qui il video integrale