lunedì 26 gennaio 2015

Il contratto a tutele crescenti, perché il posto fisso è brutto ma il cambio fisso è bello

Torno a occuparmi del Jobs Act perché il decreto attuativo n.183 del 10 dicembre 2014 ha disciplinato il contratto a tutele crescenti.

Diamo ora un'occhiata al decreto di cui sopra.

L'articolo 1 si definisce il campo di applicazione della norma, ovvero i lavoratori con la qualifica di: operai, impiegati, e quadri assunti a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto.

Tanto per cominciare quindi, la riforma vale solo per i nuovi contratti d'assunzione. Il motivo per cui non è stata estesa a quelli vecchi è ovvio. Avrebbe determinato un'esplosione dei licenziamenti, soprattutto di signore e signori di mezza età, meno produttivi e più costosi degli impiegati appartenenti alle nuove generazioni, la cui condotta è già stata notevolmente ammorbidita da anni di disoccupazione e precariato. Questa è di per se già un'ammissione del fatto che, a scanso di equivoci, e oltre ogni velo d'ipocrisia, l'obiettivo della legge è quello permettere licenziamenti più facili, e con un costo più contenuto.

Un altro punto importante è che il suddetto decreto disciplina il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo.

Illegittimo cioè: che non ha le qualità o le condizioni richieste dalla legge per essere riconosciuto giuridicamente valido (Fonte: Treccani)

In altre parole, questa norma si occupa di chi è licenziato ingiustamente (senza giustificato motivo, in maniera illegittima, contraria alla legge,etc. etc.)

E che succede?

Leggiamo l'art. 3: "il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data di licenziamento..."

Avete capito bene? Il primo paradosso è che, se uno ti licenzia illegittimamente (cioè senza averne il diritto) il giudice non lo punisce ma anzi ne ratifica il gesto, e conferma il licenziamento.

Ma c'è di peggio.

L'art. 3 continua così: "...e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità".

La legge infatti stabilisce d'imperio l'entità del danno da corrispondere al lavoratore licenziato contravvenendo a un normale principio di diritto, vigente in ogni altra forma di contratto. Quello previsto dall'art. 1223 del codice civile, il quale stabilisce che a chi ha subito un danno venga corrisposta una somma comprendente la perdita e il mancato guadagno, ovvero, in linguaggio giuridico, il danno emergente e il lucro cessante.

Cioè, passa il principio per cui tutti sono uguali davanti alla legge, ma chi licenzia è più uguale degli altri. E questo gli permette di pagare meno del dovuto.

Qualcuno penserà che io sono ingiusto, che voglio criticare a tutti i costi, che non esiste più il posto fisso e che dobbiamo tutti farcene una ragione. Ma davvero? In questo blog io vi ho mostrato, che la stessa Banca Centrale Europea stessa ammetta come la crisi sia stata causata dall'euro (qui). Come mai il cambio fisso, o la moneta unica (che è lo stesso) favorisca l'investitore che non si deve più preoccupare del rischio di cambio perché esso viene ribaltato sulla collettività (quindi su di noi). Poi, quando le crisi si manifestano, crisi di debito estero causate dalla perdita di competitività dovuta al cambio fisso, come la nostra, il governo, quello nostro, eletto da noi, si fa imporre dai nostri creditori esteri le politiche di austerità che creano disoccupazione (colpendo ancora noi che lavoriamo, o che lavoravamo). E per tornare ad assumere, o meglio per esportare, dato che il mercato interno impoverito dalla recessione ormai non interessa evidentemente più a nessuno, gli investitori esteri chiedono, come contropartita per tornare a investire, una legge per poter licenziare più facilmente (colpendo ancora noi, una volta di più).

Giudicate voi.

Secondo me c'è qualcosa che non va in una democrazia, nel momento in cui i parlamentari eletti tendono a fare leggi che tutelano sempre di più le poche persone per cui un investimento è una questione di guadagno, contro le molte per cui il lavoro è un mezzo per vivere.

I poveri pagano per tutti. Non sappiamo proprio dove abbiano preso tutto questo denaro.
(Zoran S. Stanojevic)






lunedì 19 gennaio 2015

Le due facce di Giorgio Napolitano

Giorgio Napolitano è stato un Presidente che ha fortemente influenzato la politica italiana degli ultimi anni.

Ha nominato lui Mario Monti, pur conoscendo i danni che l'austerità che avrebbe causato al Paese.

E' intervenuto con numerosi moniti perché il Parlamento procedesse speditamente con le riforme necessarie (quelle che ci chiede l'Europa).

Si è più volte espresso a favore di una maggiore integrazione europea e contro l'abbandono dell'euro.

Giorgio Napolitano oggi
Pertanto, vi sorprenderà sapere che Giorgio Napolitano non è sempre stato un eurista convinto.

Quando era un deputato del Partito Comunista Italiano fu contrario all'ingresso dell'Italia nel Sistema Monetario Europeo (lo SME, ovvero l'antesignano dell'euro). E' rimasto negli annali un suo celebre intervento del 13 dicembre 1978 alla Camera dei Deputati.

Giorgio Napolitano negli anni settanta
In quel bel discorso (che vi suggerisco di leggere integralmente QUI) Giorgio Napolitano dimostro di conoscere appieno le problematiche connesse all'integrazione europea e illustrò, con grande lucidità e lungimiranza, tutti i rischi che avrebbe corso l'Italia aderendo ad un sistema di quel tipo. Rischi che, per altro, oggi si sono manifestati in tutta la loro effettiva gravità.

Anche in quel periodo, come oggi, il governo metteva fretta al Parlamento, in termini del tutto simili a quelli di oggi (fate presto, è l'unica possibilità, non si può restare fuori, etc. etc.). Giorgio Napolitano denunciò questa forzatura, difese la democrazia, gli interessi del nostro paese, e si scaglio contro l'Europeismo di maniera di alcuni suoi colleghi.

Ecco un solo passaggio, tra i molti significativi, di quell'intervento:

non è mancata in qualche discorso da me personalmente ascoltato l’affermazione che il nostro paese non fosse in grado di porre alcuna condizione e che la sola speranza di salvare l’Italia da sviluppi catastrofici della crisi attuale fosse il vincolo esterno di un rigoroso meccanismo di cambio. Chi sostiene questo fa un grave torto a tutte le forze democratiche italiane

Purtroppo Napolitano rimase inascoltato e lo SME fu approvato. Col tempo, anche lui cambiò idea.

Di seguito, un estratto dal suo ultimo messaggio di Capodanno agli italiani:



















lunedì 12 gennaio 2015

I vantaggi della svalutazione. Le condizioni di Marshall-Lerner

Abbiamo già affrontato (qui) la questione della svalutazione della nuova lira in caso di uscita dall'euro verificando perché, con tutta probabilità, essa si conterrebbe ben al di sotto del 50% paventato da alcuni commentatori.

Invece, in questo post capiremo che, in fondo, di quanto si svaluterebbe la lira ce ne importa relativamente. Perché quello che conta è capire se questo evento potrebbe aiutare l'economia italiana a ritrovare competitività rispetto alle altre.

Chi segue questo blog sa perfettamente che, quella in cui si trova l'Italia e tutti i paesi sotto stress (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) è una crisi di debito estero, causata dai persistenti deficit delle partite correnti maturati nel settore PRIVATO. Il settore pubblico, con il suo debito, la corruzione, e gli sprechi, non è stato la causa delle crisi, e di certo non potrà esserne la soluzione. Coloro i quali nutrissero ancora dubbi in merito, possono scorrere le pagine di questo blog, o di altri molto più autorevoli, e informarsi correttamente.

Tornando all'oggetto del post odierno, consideriamo questa formula della bilancia commerciale:

PX = EPfM

Dove:
P = prezzi interni
X = esportazioni
E = tasso di cambio
Pf = prezzi esterni
M = importazioni

Se la bilancia commerciale è in equilibrio, la parte sinistra (prima dell'uguale) e la parte destra (dopo l'uguale) devono coincidere.

Facciamo un esempio:


P X E  Pf M
val. X val M X-M
situazione di partenza
1
50
1
1
50

50 50 0

La differenza tra esportazioni PX=50 (cioè: 50 * 1) e importazioni EPfM = 50 (cioè: 50 * 1 * 1) è ovviamente zero. Quindi, la condizione iniziale è rispettata.

Facciamo un passo in avanti.

L'incubo di chi pensa che tornare alla lira e lasciarla svalutare sarebbe un male, consiste nel fatto che, a parità di altri fattori (tenete bene a mente questa premessa) le importazioni diventerebbero più costose.

Cioé:


P X E  Pf M
val. X val M X-M
situazione di partenza
1
50
1
1
50

50 50 0
svalutazione 20%
1
50
1,2
1
50

50 60 -10

Sopra ho ipotizzato una svalutazione del 20% del cambio (E=1,2 mentre nella situazione di partenza è 1). La sottrazione tra esportazioni e importazioni (X-M) risulta essere pari a -10. La bilancia commerciale diventa negativa (come lo è stata dall'introduzione dell'euro fino alle politiche di austerità).

Io però avevo specificato di tenere bene a mente che questo scenario si manifesta solo nel caso in cui, svalutando il cambio, diventino più costose le importazioni, a parità di tutti gli altri fattori (gli economisti usano l'espressione latina ceteris paribus). Cosa succede in realtà?

Ad una svalutazione non reagisce solo il valore delle importazioni ma anche quello delle esportazioni. Mentre le prime diventano più costose, e quindi meno convenienti, le seconde saranno più a buon mercato. Per capire se il gioco vale la candela, gli economisti utilizzano le condizioni di Marshall-Lerner.

E' una questione di somma delle elasticità delle importazioni e delle esportazioni. Significa porsi la seguiente domanda: "di quanto si modificherà il dato di importazioni e di esportazioni al variare del cambio?". Marshall e Lerner ci dicono che, se la somma in valore assoluto di queste due elasticità è maggiore di 1, allora la svalutazione si tramuterà in un miglioramento della bilancia commerciale.

L'elasticità si misura come segue:

X/X
------- = ex;
E/E

M/M
------- = em
E/E

Dove:
X/X = è la variazione delle esportazioni diviso il totale delle esportazioni
M/M = è la variazione delle importazioni diviso il totale delle importazioni
E/E = è la variazione del cambio diviso il cambio
ex = è elasticità delle esportazioni
em = è elasticità delle importazioni

Proviamo con un esempio. Supponiamo che, con i dati della precedente tabella, le elasticità di importazioni ed esportazioni siano entrambe pari a 0,4:

4/50
------ = 0,4 (esportazioni);
0,2/1

4/50
------ =  -0,4 (importazioni)
0,2/1


P X E  Pf M
val. X val M X-M
ex em
situazione di partenza 1.0 50.0 1.0 1.0 50.0
50 50 0


caso A 1.0 54.0 1.2 1.0 46.0
54 55.2 -1.2
0.4 -0.4

Le esportazioni aumentano di 4 perchè 0,2 (che è la svalutazione del cambio) moltiplicato per 0,4 (ovvero l'elasticità alle esportazioni) è uguale a 0,08 (quindi l'8%). Infatti, 4 è esattamente l'8% di 50. Pertanto, 50+4=54. La stessa logica si applica alle importazioni, che diminuiscono da 50 a 46, ma diventano più costose a causa della svalutazione (1,2 * 46 = 55,2).

Il risultato di questo primo esempio è negativo (X-M= -1,2). La bilancia commerciale è peggiorata. Ma Marshall e Lerner specificano che, per godere del beneficio della svalutazione, la somma in valori assoluti delle due elasticità deve essere maggiore di 1. In questo esempio non è così: 0,4 + 0,4 = 0,8 < 1.

Proviamo con elasticità 0,8 sia per le esportazioni che per le importazioni. Non vi sto a mostrare tutti i calcoli perché ora li sapete fare e potete, eventualmente, verificarli:


P X E  Pf M
val. X val M X-M
ex em
situazione di partenza 1.0 50.0 1.0 1.0 50.0
50 50 0


caso B 1.0 58.0 1.2 1.0 42.0
58 50.4 7.6
0.8 -0.8

Abbiamo ottenuto un surplus della bilancia commerciale di 7,6!

Avendo verificato che le condizioni di Marshall e Lerner funzionano davvero, rimane da sapere una cosa non banale, ovvero a quanto ammontano l'elasticità alle importazioni e alle esportazioni nel caso dell'Italia.

Prima di rispondervi vi invito a riflettere su due considerazioni di ordine pratico:

1. le esperienze passate, vedi la svalutazione del 1992, hanno sempre avvantaggiato il nostro paese in termini di bilancia commerciale e, nonostante la Cina, la maggior parte del commercio italiano rimane quello intraeuropeo, dove le aziende tedesche, e non quelle cinesi, rappresentano la concorrenza;

2. nonostante la crisi, e un calo della produzione industriale del 25%, l'Italia rimane il secondo produttore manifatturiero d'Europa (la Germania è il primo). Mentre la svalutazione colpirebbe il costo di una parte del manufatto venduto, di solito le materie prime, l'esportazione godrebbe della svalutazione sul prezzo dell'intero prodotto. In pratica, il produttore guadagna dal fatto che, per lui, solo una parte dei costi è aumentata, mentre per il cliente estero, lo "sconto" si applicherebbe alla totalità del prodotto.

In ogni caso, come documenta l'economista Alberto Bagnai (qui e qui) la sola elasticità italiana alle importazioni è pari a 2. E questo fatto da solo sarebbe già sufficiente a soddisfare le condizioni di Marshall e Lerner.


























lunedì 5 gennaio 2015

Di quanto si svaluterebbe la nuova lira in caso di uscita dell'Italia dall'euro?

In questo post cercherò di rispondere in modo razionale alla seguente domanda: "di quanto si svaluterebbe la nuova lira in caso d'uscita dell'Italia dall'euro?"

Occorre premettere che nessuno ha la palla di vetro, e che pertanto, le valutazioni sul futuro sono soggette, come sempre, ad un certo grado d'incertezza. Ciò non di meno, è bene essere a conoscenza del fatto che esiste uno strumento adatto a fare simili previsioni.

Mi riferisco alla teoria economica della parità dei poteri d'acquisto. Essa afferma, un po' sommariamente, che i prezzi di due paesi devono essere uguali se convertiti nella medesima valuta.

EP = P*

Dove:
E = cambio nominale della prima valuta
P = livello dei prezzi della prima valuta
P* = livello dei prezzi della seconda valuta

Pertanto:

EP / P* = 1

EP / P* è il tasso cambio reale che secondo questa teoria dovrebbe essere uguale a 1. Questo perchè, se così non fosse, un venditore potrebbe ottenere un maggior profitto su un altro mercato, e a quel punto, la legge della domanda e dell'offerta applicata al mondo intero riporterebbe i profitti allo stesso livello ovunque.

Naturalmente, sappiamo che quest'affermazione è il più delle volte imprecisa (e in alcuni casi, molto imprecisa) perché, e mi vengono in mente solo alcuni motivi: nei paesi più ricchi posso vendere i prodotti ad un prezzo maggiore, i costi di trasporto e i dazi doganali alterano il prezzo delle merci, le differenze culturali fra i paesi modificano la propensione al consumo dei singoli prodotti, etc, etc.

Il punto però, non è prendere queste parole come se fossero il Vangelo. Si tratta solo di accettarne i limiti e contestualizzarle.

La teoria della parità dei poteri d'acquisto ha anche una versione relativa (quella precedente era assoluta) riferita all'andamento del cambio nominale fra due valute, e sostiene che la variazione di esso (il cambio nominale) è pari al differenziale dei tassi d'inflazione dei due paesi.  



%E = ∆%P - ∆%P*

 
Facciamo un esempio storico. Dal 1979 fino al 1992, la lira italiana e il marco tedesco erano entrambe inserite nel Sistema Monetario Europeo, e il cambio tra le due monete doveva essere contenuto entro una banda d'oscillazione (del 6% in un primo monento, poi ristretta al 2,25%). Nel gennaio 1987 il cambio lira - marco viene riallineato per l'ultima volta perché il governo tedesco decise di rivalutare (una prassi che consentiva di rinegoziare il cambio di riferimento della banda d'oscillazione). Ipotizzando che fino al settembre 1992, quando uscimmo dallo SME, il cambio lira - marco venne mantenuto fisso (cosa non vera come vedremo dopo) consideriamo i differenziali d'inflazione annuali fra Italia e Germania nel periodo indicato (1987-1992).

 

Tassi d'inflazione comparati tra Italia e Germania disponibili sul sito OCSE

anno Germania Italia differenza diff.acc.
1987 0.2% 4.7% 4.5% 4.5%
1988 1.3% 5.1% 3.8% 8.3%
1989 2.8% 6.3% 3.5% 11.8%
1990 2.7% 6.5% 3.8% 15.6%
1991 4.0% 6.3% 2.3% 17.9%
1992 5.1% 5.3% 0.2% 18.1%

Come potete vedere, nell'anno dell'uscita dallo SME, rispetto al momento dell'ultimo allineamento del cambio, l'Italia aveva accumulato con la Germania un differenziale d'inflazione pari al 18% (colonna diff.acc.).

E di quanto si svalutò la lira sul marco nel 1992 una volta uscita dallo SME?

 

Tassi di cambio lira - marco da agosto a dicemnre 1992 consultati dal sito della Banca d'Italia


mese lire per 1 marco svalutazione sval. %
Aug-92 759.679 - -
Sep-92 806.866 47.187 6%
Oct-92 881.995 122.316 16%
Nov-92 859.548 99.869 13%
Dec-92 894.040 134.361 18%

Esattamente il 18%!

Va bene dai c'è il trucco, lo ammetto. Io ho ipotizzato che il cambio lira - marco tra il 1987 e il 1992 fosse rimasto stabile, e invece così non è, come mostra il grafico qui sotto scaricato direttamente dal sito di Banca d'Italia.






Infatti, bisogna considerare che tra l'ultimo riallineamento del cambio avvenuto il 12 gennaio 1987 e l'uscita della lira dallo SME, il 12 settembre 1992, la lira si svalutò comunque sul marco di un buon 8%, cosa che fa aumentare il totale della svalutazione del periodo al 26%, contro un differenziale d'inflazione del 18%.

Quindi, la lira si è svalutata più del previsto, quasi il 50% in più di quanto calcolato con la semplice applicazione della teoria della parità dei poteri d'acquisto relativa.


Ora, proviamo a fare lo stesso calcolo riferito al periodo 1996-2014, ovvero da quando furono fissati i cambi irrevocabili tra le monete europee e l'ultimo dato disponibile (novembre 2014). I differenziali d'inflazione sono stati i seguenti:

 

Tassi d'inflazione comperati Italia e Germania disponibili sul sito OCSE

anno Germania Italia differenza diff.acc.
1996 1.4% 4.0% 2.6% 2.6%
1997 1.9% 2.0% 0.1% 2.7%
1998 0.9% 2.0% 1.1% 3.8%
1999 0.6% 1.7% 1.1% 4.9%
2000 1.4% 2.5% 1.1% 6.0%
2001 2.0% 2.8% 0.8% 6.8%
2002 1.4% 2.5% 1.1% 7.9%
2003 1.0% 2.7% 1.7% 9.6%
2004 1.7% 2.2% 0.5% 10.1%
2005 1.5% 2.0% 0.5% 10.6%
2006 1.6% 2.1% 0.5% 11.1%
2007 2.3% 1.8% -0.5% 10.6%
2008 2.6% 3.3% 0.7% 11.3%
2009 0.3% 0.8% 0.5% 11.8%
2010 1.1% 1.5% 0.4% 12.2%
2011 2.1% 2.8% 0.7% 12.9%
2012 2.0% 3.0% 1.0% 13.9%
2013 1.5% 1.2% -0.3% 13.6%
2014* 1.1% 0.8% -0.3% 13.3%





*= dato di novembre


La differenza accumulata dei tassi d'inflazione fra Italia e Germania, pari al 13,3%, ci da un ordine di grandezza utile per una stima ragionevole della svalutazione della nuova lira in caso d'uscita dell'Italia dall'euro. Tuttavia, come abbiamo visto nell'esempio precedente, tale stima può differire anche di molto rispetto al risultato reale. Infatti, è necessario tenere conto anche dell'effetto sul cambio della bilancia commerciale. Nel caso specifico, il governo tedesco, tramite politiche deflazionistiche ha mantenuto la Germania in surplus strutturale durante quasi tutto il periodo preso in considerazione, e potrebbe continuare a farlo, perché nonostante tutta la retorica sull'Europa unita, a livello politico, i nostri governi si relazionano ancora facendo valere i reciproci rapporti di forza invece di seguire una tanto auspicata, quanto irrealizzata, volontà di cooperazione . Ma, anche considerando un errore simile a quello riscontrato nel 1992 (pari al 50%) la svalutazione sarebbe contenuta entro il 20%.

Se vi capitasse di sentire qualcuno che prevede svalutazioni del 50% o superiori, potrebbe essere il caso di chiedergli da dove viene fuori un simile risultato. C'è sempre da imparare (da chi ne sa di più di noi).