lunedì 25 agosto 2014

Vogliono trasformare una crisi di mercato in una sconfitta per la democrazia

Quella che è passata alla storia come crisi del 2007 inizia negli Stati Uniti con il fallimento di importanti istituzioni finanziarie come Lehman Brothers, e il salvataggio di altre. La causa scatenante di questo disastro è stato il mercato dei mutui sub prime. In pratica, il sistema del credito americano si alimentava tramite la concessione di mutui a persone con un elevato rischio di rimborso. I subprime, erano stati trasformati in prodotti finanziari e acquistati da banca in banca. Il successivo crollo immobiliare, è stato il fattore scatenante della crisi in America, causato dall'immissione sul mercato di una quantità eccessiva di case che le banche cercavano di vendere quando i clienti a cui avevano concesso il mutuo diventavano insolventi.
Il problema è poi passato dagli USA all'Europa, colpendo le banche che avevano investito di più nei subprime, che erano per lo più le grandi istituzioni finanziarie dei paesi del nord Europa (Germania in testa) le quali disponevano di grandi quantità di capitali da investire che provenivano dai surplus della bilancia dei pagamenti ottenuta tramite l'euro.


Ricapitolando, quando la musica degli alti rendimenti dei subprime è finita in una montagna di debiti non pagati (e quindi di crediti inesigibili) parte delle banche americane e europee sono fallite. Altre sono state acquistate da altre banche, o salvate con soldi pubblici. Nel frattempo, avendo le società di credito degli obblighi verso gli istituti di vigilanza circa la qualità delle loro attività, hanno dovuto integrare i loro investimenti in perdita (i subprime) con una montagna di titoli pubblici a rendimento più basso ma sicuro.

Cosa è successo a quel punto?

Che le banche del nord Europa (le più ricche) fortemente esposte verso quelle americane per i pessimi investimenti nei subprime, e impossibilitate a chiedere i loro soldi indietro (provateci voi ad andare a Washington a pretendere l'austerità) hanno deciso di tagliare gli investimenti verso gli altri paesi dell'area euro, soprattutto quelli i cui titoli di Stato non erano più così sicuri per vari motivi: il loro debito pubblico era fortemente aumentato a causa della crisi, oppure le prospettive di crescita dell'economia erano basse. Inizia così la crisi dello spread.

Nel frattempo, le stesse banche europee che avevano iniziato a vendere i titoli di stato più a rischio, avevano anche smesso di finanziare, con i loro capitali, le banche dei paesi più deboli dell'area euro, cioè i famosi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) la cui economia, negli anni della moneta unica era cresciuta (chi più e chi meno) mediante ai capitali esteri.

Il grafico illustra la crescente esposizione dei sistemi bancari dei PIIGS verso quelli dei paesi virtuosi ed è il lucido n.2 del discorso del vice Presidente della BCE Vitor Constancio ad Atene a maggio 2013 (vedi post precedente).
A loro volta i PIIGS, nel bel mezzo della crisi più grave dal 1929, hanno visto calare le loro entrate fiscali per il crollo dell'economia, si sono visti bloccare il credito alle loro aziende da parte delle banche (che non erano più finanziate dal Nord Europa), e si sono trovati con un settore privato seppellito sotto montagna di debiti esteri accumulati negli anni, fin dal momento in cui erano entrati nell'euro.

Come hanno reagito i governi dei PIIGS?

Semplice, distruggendo la domanda interna con l'austerità


riequilibrando la bilancia dei pagamenti, come descritto in questo post, nel tentativo di fermare la corsa del debito estero.

Il risultato?

Mentre nel resto del mondo, negli anni successivi alla tempesta l'economia ha ripreso a crescere, seppur con moderazione, nell'area euro ci siamo dati una seconda botta da cui non ci siamo ancora ripresi.


Ma sapete qual'è la cosa più buffa?

Al di là del fatto che sulla crisi manchi una corretta informazione da parte dei più importanti media mainstream, quello che a mio giudizio è più singolare, è che da un problema nato, cresciuto, ed esploso nel settore privato (in gergo economico un fallimento di mercato) ne è nata una discussione politica sulle riforme costituzionali. Voi direte, ma che cosa c'entra? Se la responsabilità dell'instabilità economica è imputabile al settore privato, per quale motivo in Italia siamo così concentrati su quello pubblico?
Perché per rimanere nell'euro, infatti l'uscita dalla moneta unica (la via più breve per guadagnare la competitività perduta) non è mai stata presa in considerazione da nessun governo italiano, l'unica strada possibile per il bilanciamento degli squilibri macroeconomici creati dalla moneta unica passa dalla svalutazione interna, ovvero della diminuzione costo del lavoro. E, cambiare la Costituzione in senso più autoritario (la cosiddetta governabilità) non è altro che un modo per fare passare più velocemente, e con più facilità, le riforme che a voi (e a me) proprio non andrebbero giù.
Per farla breve, stanno trasformando una crisi di mercato in una sconfitta per la democrazia.

Dite di no? Mi sto sbagliando?
Vabbé allora seguente serie di eventi non vi interesserà:
  • a giugno 2012 il Sindaco di Firenze Matteo Renzi ha partecipato insieme all'allora ministri Passera e Grilli ad un incontro organizzato da JP Morgan a Firenze sulla situazione politica in Italia (vedi, ad esempio, questo articolo) a cui era presente anche l'ex Primo Ministro inglese Tony Blair
  • un anno dopo, il 28 maggio 2013, sempre JP Morgan ha pubblicato questo studio sull'area euro in cui si scrive che la nostra Costituzione è un ostacolo all'integrazione europea, che risente di una forte dell'influenza socialista e che, tra le altre cose, protegge i diritti del lavoratore.
  • la UBS (Unione delle Banche Svizzere) già a gennaio 2014 (quando Letta stava sereno) pubblicava questo documento in cui si diceva che l'Italia non avrà molto spazio di manovra per discutere con la Commissione Europea se Matteo Renzi (in qualità di Presidente del Consiglio?) non riuscirà a velocizzare il percorso delle riforme. E che in Italia il costo del lavoro è ancora troppo alto (attenzione, quello per unità di prodotto, non quello orario!) e che il Fondo Monetario Internazionale stima che sarà necessaria una riduzione del 10%.
  • infine, ad aprile 2014, il Presidente del Consiglio Renzi, fresco di nomina, si è incontrato ancora con la JP Morgan e Tony Blair a Londra (vedi qui) per illustrare il suo programma di riforme, come del resto aveva già fatto a febbraio al Fondo Monetario Internazionale (vedi qui). 
Vorrei che fosse chiaro che io non punto l'indice contro JP Morgan o le altre grandi istituzioni finanziarie private che sono, ovviamente, libere di pubblicare ciò che vogliono. Sono, casomai, i politici che hanno la responsabilità di valutare l'impatto sociale delle politiche che gli vengono suggerite.
D'altra parte, non ce l'ho nemmeno con Renzi. E' sempre stato un uomo ambizioso, e con abili doti comunicative, mediante le quali ha ottenuto la fiducia per arrivare alla posizione a cui ambiva da tempo (la Presidenza del Consiglio). Sulla strada del successo ha avuto modo di incontrare tante persone influenti e forse si è fatto persuadere, in buona fede, da alcuni consiglieri economici, circa la bontà della strategia da seguire per il bene del Paese.
Ma in cosa è utile una democrazia se non nel fatto che, quando qualcuno di noi prende una cantonata, la maggioranza del parlamento reagisca impedendo che le sue proposte vengano approvate? 
Invece da noi sembra proprio che in pochi mostrino di aver capito dove sta la fregatura. Segno che forse dovremmo interrogarci su quanto, già ora, sia effettivamente compiuta la nostra democrazia, e su cosa rischiamo di perdere insistendo sulla strada di queste riforme costituzionali.








martedì 19 agosto 2014

Di Battista e l'ISIS

Qualche giorno fa, il blog di Beppe Grillo ha pubblicato questo post, scritto dal cittadino eletto del Movimento 5 Stelle Alessandro di Battista, dal titolo "ISIS: Che fare?".
Subito è esplosa una polemica su una frase che, a detta dei critici, era da interpretare a favore dei terroristi islamici che stanno mettendo a ferro e fuoco l'Iraq.
Ecco alcuni esempi:

Repubblica: Iraq, Di Battista (M5S) "Terrorismo purtroppo unica arma per i ribelli"

Corriere della Sera: Iraq, Di Battista (M5S): "Il terrorismo unica arma rimasta a chi si ribella"

Il Fatto Quotidiano: Iraq, Di Battista "Con i droni il terrorismo è la sola arma rimasta a chi si ribella"

Io leggo abitualmente il blog di Beppe Grillo e sono abituato al fatto che i giornali, e i telegiornali, spesso sfruttino alcuni post per mettere in cattiva luce il M5S. Non lo fanno solo con Grillo, questa modalità di disinformazione è molto più diffusa di quanto si pensi. Per questo ho imparato ad andare a controllare tutte le dichiarazioni interessanti prima di esprimere un giudizio.
Questa è la frase incriminata così come scritta da Di Battista:

"Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione. Questo è un punto complesso ma decisivo. Nell'era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. E' triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto ne giustificando né approvando, lungi da me. Sto provando a capire. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un'azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore. Compito difficile ma necessario, altrimenti non si farà altro che far crescere il fenomeno".

Leggete bene: "è la sola arma VIOLENTA rimasta a chi si ribella". Non significa che il terrorismo è giustificato perché è il solo modo di agire, ma che è il solo modo tra quelli violenti. Infatti:  "Io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente CHE SONO MIGLIORI".

Intanto, il virgolettato riportato nei titoli di giornale è sbagliato, quindi la notizia è falsa.
Poi, è palese il fatto che i titoli così riportati vogliano fare intendere che Di Battista sia a favore del terrorismo. Quindi la notizia, oltre che falsa, è pure tendenziosa.

Ma cosa avrà mai scritto Di Battista a parte quanto riportato (erroneamente) da alcuni giornali?

Cose strane del tipo che bisogna trattare con l'ISIS? Io non so se bisogna, o meno, trattare con loro ma mi chiedo perché quando questi stessi terroristi combattevano in Siria con il nome di Esercito Siriano Libero erano considerati nostri amici, tanto da essere addestrati da personale americano (Reuter, Guardian). Meritavano più credito allora?

Vogliamo negare il fatto che, come dice Di Battista il medio oriente sia stato spartito fra Francia e Inghilterra dopo la prima guerra mondiale? E che questo abbia causato nel corso della storia, e fino a oggi, diversi conflitti tra le popolazioni, compreso quello israelo-palestinese?

E per quanto riguarda il comportamento del governo americano dopo l'attentato alle Torri Gemelle, è forse così lontano dalla realtà sostenere che il governo USA abbia approfittato dell'evento per invadere Afganistan e Iraq? Vi ricordate cosa dichiarò il generale americano Clark qualche anno fa? No? Allora vi do una rinfrescatina:


lunedì 18 agosto 2014

Perché il debito pubblico italiano è così alto?

La dimensione del debito pubblico italiano è spesso oggetto di lunghe discussioni, ma la sua origine è, di solito, poco conosciuta. Io stesso, quando iniziai a studiare l'argomento (più di due anni fa), mi feci un'idea completamente errata riguardo ai veri motivi della sua continua crescita.
L'analisi di seguito proposta ha come obiettivo quello di illustrare la principale causa dell'aumento del debito pubblico dagli anni ottanta, fino ai primi anni novanta. La fase successiva, quella del periodo ante e post crisi 2007 è stata già discussa qui.
Nei due grafici successivi si mostra la crescita del debito pubblico nel periodo compreso tra il 1970 e il 2012. Il primo grafico rappresenta il debito in milioni di euro. Questo tipo di visione è per lo più sensazionalistica, ed è usata molto spesso a sproposito, per alludere agli sprechi dell'amministrazione pubblica. Mentre nel secondo, troviamo il rapporto tra debito pubblico e PIL, un valore più funzionale alle analisi economiche. Infatti, nonostante il debito vada tenuto sotto controllo non deve per forza scendere. E' sufficiente che non cresca più del PIL. Questo perché il debito pubblico (e il debito in generale) non è per forza una cosa negativa, è solo un strumento, e la sua sostenibilità dipende anche dai motivi per cui viene contratto. Poi, se lo Stato ha un debito, i cittadini hanno un credito e un guadagno che deriva dagli interessi. Il 67% del debito pubblico è nelle mani degli italiani (Fonte: Banca d'Italia).


Noterete, sia nel primo grafico che nel secondo, che la maggior crescita del debito pubblico avviene nel periodo che va dal 1981 fino agli inizi degli anni novanta.

Prima di arrivare alla sostanza del problema, che è stato il divorzio fra Ministero del Tesoro e Banca d'Italia, conviene anticipare che durante gli anni settanta, e fino ai primi anni ottanta, il mondo sperimentò un'elevato tasso d'inflazione (vedi dati OCSE). Anche sulle reali motivazioni di questo fenomeno ci sarebbe da discutere. In ogni caso, se osservate il grafico sottostante potreste avere un'interessante intuizione a proposito della correlazione fra l'nflazione e il prezzo del petrolio.


Nel 1980, anno precedente il Divorzio l'inflazione italiana aveva raggiunto il suo apice, 21,1%. Fu in quel contesto che l'allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta prese una decisione storica, che è così raccontata in un'intervista rilasciata al Sole24Ore (qui il testo integrale).

"Ero al ministero del Tesoro da poco piu' di tre mesi, di cui due quasi integralmente occupati a rimettere in movimento il meccanismo delle nomine bancarie -nomine da ministro della Repubblica, senza condiscendenze alle pressioni dei partiti della maggioranza - quando dovetti valutare, con senso di urgenza, che la crisi del secondo shock petrolifero imponeva di essere affrontata con decisioni politiche mai tentate prima di allora. La propensione al risparmio finanziario degli italiani si stava proprio in quei mesi abbassando paurosamente e il valore dei cespiti reali - case e azioni- aumentava a un tasso del cento per cento all' anno...
...
I miei consulenti legali mi diedero un parere favorevole sulla mia esclusiva competenza, come ministro del Tesoro, di ridefinire i termini delle disposizioni date alla Banca d' Italia circa le modalita' dei suoi interventi sul mercato e il 12 febbraio 1981 scrissi la lettera che avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al "divorzio".

Pertanto, il Ministro scrisse all'allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi comunicandogli che avrebbe posto fine all'obbligo, da parte della nostra banca centrale, di acquistare i titoli di Stato che il Ministero non riusciva a vendere sul mercato al momento della loro emissione. Da quel momento in poi, i titoli pubblici italiani sarebbero stati piazzati in regime di libera concorrenza (insieme a tutti gli altri, pubblici e privati). E' chiaro pertanto che per poter essere venduti il loro rendimento (tasso d'interesse) avrebbe dovuto essere conveniente per gli investitori, e che il costo di tale operazione avrebbe rappresentato un maggior onere per lo Stato.

Quello che l'allora Ministro intendeva ottenere con il Divorzio era una stretta alla spesa pubblica, e una progressiva diminuzione del tasso d'inflazione (cosa che, tutto sommato, avvenne).

Evitando di discutere sulla bontà o meno di questa misura, che in quel contesto storico poteva anche avere un senso, è doveroso osservare come la famosa lettera, non impediva affatto alla Banca d'Italia di acquistare i titoli di stato in eccesso ma, come dice esattamente il testo: "Tale riesame dovrebbe portare ad un sistema in cui l'intervento della Banca d'Italia all'asta dei BOT sia una libera decisione della Banca stessa". Il testo integrale lo trovate qui.

Passando alle conseguenze, sebbene l'inflazione progressivamente dimnuì, non si può certo negare l'impatto che il Divorzio ebbe sull'incremento del debito pubblico, come riconosciuto dallo stesso Andreatta:

"Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l' escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale".

I tassi d'interesse reali (cioè al netto dell'inflazione) come mostra il grafico seguente, dopo essere rimasti negativi per gran parte degli anni settanta, schizzarono verso l'alto. La parte finale di quest'impennata, avvenuta nel 1992 è dovuta agli sforzi, vani, di rimanere agganciati al Sistema Monetario Europeo, ma questo è un altro discorso.


Al contrario di quanto si è comunemente portati a pensare, a partire dagli anni ottanta, i governi tennero sotto controllo le uscite, aumentando progressivamente l'avanzo primario (la differenza tra le entrate e la uscite del bilancio pubblico), nonostante dal punto di vista qualitativo la spesa fosse inquinata comunque dagli sprechi, dalla corruzione e dal clientelismo (più o meno come oggi). Tuttavia, il deficit pubblico (che somma all'avanzo primario anche la spesa per interessi) rimase comunque alto, fino all'entrata in vigore del Patto di Stabilità e Crescita Europeo (che impone a ciascun paese aderente il famoso vincolo del deficit al 3%), segno che il continuo incremento del costo per gli interessi rese inutili gli sforzi fatti per contenere la spesa pubblica.


Il grafico seguente, infine, mostra il rapporto tra costo per gli interessi sul bilancio pubblico e PIL, e mette in evidenza l'aumento di questa voce di spesa nel periodo immediatamente successivo al Divorzio, fino al 1992.


In conclusione, possiamo affermare che la causa principale dell'aumento del debito pubblico negli anni ottanta fu il cosiddetto Divorzio e il conseguente incremento dei tassi d'interesse. Tuttavia è bene ricordare che, come precedentemente illustrato (qui), questo non ha niente a che fare con la crisi che l'Italia sta vivendo in questi anni.

venerdì 8 agosto 2014

Quando il rock ci parla d'economia

Ascoltando questa canzone dei Clash "Career opportunity" non posso non trovare una relazione sorprendente con quello che è il mercato del lavoro italiano in questi anni.

"Mi hanno offerto di lavorare in ufficio e in negozio
Mi hanno detto che avrei fatto meglio ad accettare qualsiasi cosa mi proponessero
Vuoi fare il tè alla BBC?
...
Nessuno ti darà mai un'opportunità di carriera
ti offrono solo lavori che servono ad escluderti dal giro
...
Se vogliono mettermi a costruire giocattoli
Se voglio farlo, maledizione, non ho scelta!"


C'è poi questo sconosciuto (in italia) gruppo inglese, The King Blues, che pochi anni fa cantava "Does anybody care about us?" (la domanda è più che lecita).

"A qualcuno importa di noi? 
O è solo questione di avere un blind trust?
...
Hanno tolto il welfare e mi hanno licenziato.
Ho visto le regole che voi considerate eque 
quello che guadagnate lo tenete e quando c'è un debito invece lo condividiamo" 

Altro da aggiungere?


martedì 5 agosto 2014

Atene 2013: quando la Banca Centrale Europea ammise le responsabilità dell'euro nella crisi

Se si è veramente interessati ad un argomento, bisogna andare a cercare le notizie all'origine, prima che esse vengano selezionate, e rese fruibili, dalla catena di montaggio dell'informazione dei media mainstream.
Ad esempio, negli ambienti accademici, la realtà della crisi è raccontata in maniera un po' diversa rispetto ai talk show televisivi.

Estratto del discorso del Vice Presidente della Banca Centrale Europea Vitor Constâncio ad Atene il 23 maggio 2013

Il racconto prevalente della crisi
Cominciando dalla prospettiva iniziale sulle cause, il vecchio racconto della crisi progressivamente corretto dall'ambiente accademico ma ancora molto popolare in alcuni segmenti dell'opinione pubblica, dice più o meno questo: non c'era essenzialmente niente di sbagliato nel disegno iniziale dell'Unione Monetaria Europea, e la crisi è il risultato del fatto che diversi paesi periferici non hanno rispettato quel disegno - in particolare le regole fiscali del Patto di Stabilità - e questo ha generato la crisi dei debiti sovrani. Questa è la "versione fiscale", che può essere connessa ad altre due: l'indisciplina fiscale ha portato al surriscaldamento economico, l'aumento degli stipendi e dei prezzi ha implicato una perdita di competitività, e questo poi ha condotto alla crisi della bilancia dei pagamenti.

Sebbene questa teoria sia intrinsecamente coerente, non è corretta, specialmente come motivo principale della crisi.

Per prima cosa, non c'è alcuna forte correlazione tra il fatto che un paese membro abbia, o no, rispettato il Patto di Stabilità prima della crisi, e i tassi di rendimento richiesti attualmente dai mercati finanziari. Per esempio, Germania e Francia non hanno rispettato il Patto nel 2003-4; Spagna e Irlanda invece l'hanno rispettato più o meno fino al 2007.

In secondo luogo, non vi è stato alcun aumento uniforme del debito pubblico complessivo nei primi anni dell'euro nei paesi che sono ora sotto pressione a causa del debito sovrano.


Lucido n.1: evoluzione del debito pubblico e privato

Effettivamente, in alcuni di essi è calato, e in altri è diminuito sostanzialmente. Per esempio, dal 1999 al 2007 il debito pubblico è diminuito in Spagna dal 62,4% del PIL al 36,3% del PIL. In Irlanda, durante lo stesso periodo, il debito pubblico è crollato dal 47% del PIL al 25% del PIL. Per quanto riguarda i paesi con dei livelli relativamente alti, il debito pubblico è diminuito in Italia (dal 113% del PIL al 103% del PIL) ed è cresciuto solo di poco in Grecia. Comunque, negli ultimi due casi, i livelli di debito pubblico erano già molto lontani dal 60% previsto dal Patto di Stabilità.

Includendo il settore bancario
Io sostengo che, per avere un resoconto più accurato delle cause della crisi, dobbiamo andare oltre le sole politiche fiscali: gli squilibri si sono originati prevalentemente dalle spese del settore privato, che è stato a sua volta finanziato dai settori bancari dei paesi attivi e passivi.

Come mostra il lucido numero 1, contrariamente ai livelli dei debiti pubblici, quelli di debito privato sono aumentati del 27% nei primi sette anni dell'euro. L'aumento è stato particolarmente pronunciato in Grecia (217%), Irlanda (101%), Spagna (75,2%), e Portogallo (49%), tutti paesi che sono stati colpiti duramente dalla recente crisi. Il forte aumento del debito pubblico, invece, inizia solo dopo la crisi finanziaria. Nel corso di quattro anni il debito pubblico aumenta di cinque punti in Irlanda e di 3 punti in Spagna.

Visto da questa prospettiva, il rapido aumento dei debiti pubblici seguiti dal crollo delle entrate fiscali e della spesa per le politiche sociali, la quale è aumentata durante la recessione dopo che i meccanismi automatici di contrasto sono stati attivati. Le pericolose interrelazioni tra i sistemi bancari privati e quelli pubblici che sono emerse dopo l'inizio della crisi finanziaria sono servite anch'esse a indebolire i conti pubblici.

Da dove sono arrivati i finanziamenti che hanno fatto esplodere il debito privato? Un particolare aspetto del processo di integrazione finanziaria in Europa dopo l'introduzione dell'euro è stato un maggior incremento nelle attività bancarie intraeuropee. Le esposizioni finanziarie delle banche dei paesi creditori nei confronti di quelle dei paesi debitori sono più che quintuplicate tra l'introduzione dell'euro e l'inizio della crisi finanziaria.


Lucido n.2: esposizione del settore bancario dei paesi creditori "non stressed countries" verso quelli debitori "stressed countries"

Anche se questa esplosione di flussi finanziari si è distribuita in modo differente tra i paesi periferici, li ha interessati tutti, e contenerne gli effetti si è dimostrato piuttosto impegnativo.


Lucido n.3: esposizione del banche dei paesi creditori "non stressed countries" verso quelli debitori "stressed countries" in percentuale del PIL 

Possiedo un'esperienza diretta circa le difficoltà che i paesi periferici hanno affrontato. Le regole europee sulla libera circolazione dei capitali avevano l'obiettivo era di creare una parità di condizioni per i diversi settori bancari, e si è creduto che l'efficienza avrebbe riequilibrato i mercati finanziari, tutto era pensato per rendere davvero difficile ogni sorta di politica di contenimento. Inoltre, nessuno aveva previsto che un blocco improvviso dei finanziamenti, caratteristico dei paesi emergenti, potesse avvenire nell'area dell'euro.

Di conseguenza, i flussi finanziari di capitale relativamente a basso costo si sono trasformati in un'enorme boom del credito nei paesi ora sotto pressione per le crisi. Come sappiamo, il credito non è stato distribuito in modo ottimale dagli agenti razionali di mercato. Dal lato della domanda, in un contesto di bassi tassi d'interesse, i consumatori e imprese, prevedendo una crescita futura, hanno anticipato consumi e investimenti come dei buoni ottimizzatori intertemporali. Dal lato dell'offerta, le banche europee e i mercati finanziari non hanno agito in accordo con quanto teoricamente previsto in materia di gestione del rischio di credito. E' stato questo che poi ha portato al surriscaldamento dell'economia, alle pressioni sui salari e sui prezzi, alla perdita di competitività e agli alti deficit dei saldi delle partite correnti.


Lucido n.4: crescita del credito bancario verso il settore privato nei paesi debitori "stressed countries"

Riassumendo, la BCE sostiene che la crisi sia stata causata dagli squilibri progressivamente formatisi nel settore privato, a causa dell'euro, tra paesi debitori (sotto pressione per la crisi) e paesi creditori. Pertanto conferma che si tratta di un problema di saldo con l'estero (ovvero delle partite correnti come già visto quiqui) e non di debito pubblico o di spesa pubblica.

Potete trovare il testo integrale del discorso, in inglese, direttamente sul sito della Banca Centrale Europea (qui)

venerdì 1 agosto 2014

Ma perché i greci accettano di essere chiamati fannulloni quando in realtà sono gli stacanovisti d'Europa?

Un po' di tempo fa sono state pubblicate dall'OCSE i dati relativi al numero di ore medie di lavoro procapite annue per paese. Trovate tutti i dati qui.

Vi riepilogo solo qualche dato nel grafico successivo.


Qualcuno potrà stupirsi del fatto che i fannulloni greci, e i furbi italiani, lavorino mediamente di più dei virtuosi tedeschi. E, non volendo rinunciare al proprio pregiudizio potrebbe commentare:"i greci staranno anche più tempo in fabbrica, o in ufficio, ma poi bisogna vedere quanto lavorano effettivamente".

Facciamo un passo in avanti e, se ci riusciamo, mettiamo da parte per un momento le nostre impressioni.
Oltre a quanto sopra mostrato a proposito delle ore di lavoro, ci sarebbe anche da considerare gli stipendi lordi medi annui che potete osservare qui sotto.


I tedeschi sono di gran lunga quelli che guadagnano meglio, seguiti dagli italiani e dai greci.

Ora, facciamo un po' di conti:
  • un italiano, in un anno, lavora in media 355 ore di più di un tedesco (il 25%), guadagnando € 6.630 in meno (il 19%)
  • un greco, in un anno, lavora addirittura 637 ore in più (il 46%), guadagnando € 15.416 in meno (il 44%)
Quindi, per guadagnare quanto un tedesco:
  • un italiano, in un anno, dovrebbe lavorare 2.158 ore (il 54% in più) ovvero 9 ore al giorno (calcolato così: 2.158 ore/11 mesi/22 giorni al mese)
  • un greco, in un anno, dovrebbe lavorare 3.617 ore (il 159% in più!) che fanno circa 15 ore al giorno
Temo che quanto sopra illustrato non sia sufficiente. Ci sarà comunque qualcuno (razzista a sua insaputa) che sosterrà a modo suo, magari facendo leva sulle pause caffè, che noi e i greci comunque ce lo meritiamo.

Facciamo un ultimo sforzo e confrontiamo i tassi di disoccupazione.


Sembra che in Germania la disoccupazione sia circa un quinto di quella greca, e meno della metà rispetto a quella Italiana.

Tenendo conto dei dati fin qui esaminati, sembrerebbe che, a parità di tutele contrattuali, le condizioni di lavoro (orari e stipendi) siano migliori laddove la disoccupazione è inferiore, ovvero l'offerta di lavoro più scarsa, o la sua domanda più alta. E' la solita legge di mercato. Tuttavia, accettando questa spiegazione dovremo rinunciare alla nostra classifica internazionale dell'eccellenza (che, come in Italia, va da nord verso sud) e accettare che sia più che altro la banale legge della domanda e dell'offerta a provocare alcune differenze di ricchezza fra le popolazioni. Praticamente, sarebbe il più grande passo in avanti dai tempi del superamento degli studi sulla criminalità di Cesare Lombroso.